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Terrorismo, il nemico imprendibile. E noi che non riusciamo neanche a dire guerra

Giovanni Belardelli e Guido Olimpio analizzano sul Corriere i "buchi" di intelligence e di cultura che rischiano di renderci inermi davanti ai jihadisti

Redazione
24/11/2015 - 16:20
Esteri
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terrorismo-isis-bruxelles-ansa

Il primo problema di questa guerra in cui nostro malgrado ci troviamo coinvolti, scrive oggi Giovanni Belardelli in un commento per il Corriere della Sera, è proprio il fatto che «gli europei non si sentono in guerra». Lo ha fatto notare anche Le Monde raccontando qualche giorno fa la riluttanza degli altri paesi dell’Unione di fronte alla richiesta di aiuto proveniente dalla Francia dopo la strage di Parigi. In effetti, osserva Belardelli «a lungo, nei secoli passati, gli Stati europei si sono trovati in guerra: una condizione che, voluta o subita che fosse, era comunque resa evidente dal fatto che qualcuno li attaccava. Ora non è più così e ciascuno decide se “si sente” o meno in guerra».

PAROLA IMPRONUNCIABILE. Il problema ha una duplice natura secondo l’editorialista del Corriere: da una parte è una questione culturale, dall’altra, per così dire, strategica. L’aspetto culturale riguarda tutto l’Occidente, spiega Belardelli. Le nostre democrazie stentano a «pronunciare di nuovo una parola che dopo due conflitti mondiali sembrava diventata impronunciabile». Perfino per gli stessi Stati Uniti (il cosiddetto poliziotto globale) dopo il Vietnam «tutto si è fatto più difficile», e la «capacità di pensare la guerra» non è più una peculiarità scontata. Ma è in Europa che questa sorta di afasia bellica è divenuta congenita, secondo Belardelli.

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SOLO “PEACE”. Grazie ai droni e alla tecnologia in generale siamo in fondo convinti che il conflitto armato «possa essere casualty free, a zero vittime», tanto tra i soldati quanto fra i civili. Ma soprattutto, a livello intellettuale, dopo decenni di pace, per gli europei «la guerra ha finito per rappresentare la negazione di quella civiltà democratica fondata sul benessere e sulla sacralità della vita umana della quale siamo – giustamente – orgogliosi», scrive Belardelli. I nomi della missioni militari a cui negli ultimi hanno preso parte i paesi del Vecchio Continente («Italia compresa») sono lì a dimostrarlo: al loro interno la parola guerra era sempre «sostituita dal suo contrario (peace keeping, peace enforcing) oppure era di fatto annullata dall’aggettivo che vi si accompagnava (la “guerra umanitaria”)».

ASIMMETRIE. Ma forse questa apparente impossibilità di pensare la guerra è frutto anche delle «caratteristiche particolari» del jihad, continua Belardelli passando alla seconda natura del problema. I terroristi islamici, infatti, riprendono dai totalitarismi del Novecento la pratica della “guerra asimmetrica”. Stalin e Hitler, ricorda il giornalista del Corriere della Sera, «uccisero milioni di “nemici oggettivi”, combattuti e soppressi per ciò che intrinsecamente erano e non per ciò che facevano». Allo stesso modo gli assassini dello Stato islamico «ci combattono anch’essi per ciò che siamo», ci uccidono indiscriminatamente «per le nostre idee – ai loro occhi blasfeme – di libertà, democrazia, uguaglianza uomo-donna». È faticoso costringersi anche solo a “pensare” di fronteggiare una minaccia di questo tipo. «Ma se è così, il fatto di chiamare le cose con il loro nome, riconoscendo che è per questo che il terrorismo islamista ci fa la guerra, non può che aiutarci a resistergli e a sconfiggerlo».

BUCHI DI INTELLIGENCE. Ancora a proposito delle «caratteristiche particolari» della guerra che i terroristi islamici stanno muovendo contro la Francia e l’Europa, è utile leggere sempre sul quotidiano di via Solferino l’analisi di Guido Olimpio sui “buchi” di intelligence che hanno preceduto gli attentati di Parigi. Quegli attacchi, scrive Olimpio, erano tutt’altro che inattesi. Il 13 maggio, dunque sei mesi prima dei raid jihadisti, dagli Stati Uniti l’Homeland Security aveva «messo in guardia su possibili attacchi in Europa dell’Isis». I rapporti Usa, continua Olimpio, già allora citavano nome e movimenti di Abdelhamid Abaaoud (il “cervello” del massacro, poi eliminato dalle forze di sicurezza francesi durante il blitz a Saint-Denis), ma per incastrarlo e fermarlo i nostri 007 avrebbero dovuto «incrociare» quei documenti «con altri dati accumulati da inizio 2015 da molti servizi, informazioni non condivise in modo adeguato».

TROPPI SOSPETTATI. Secondo Olimpio a rendere «il nemico» inafferrabile per i servizi segreti sono la velocità e i numeri. «Ogni Paese – scrive – è alle prese con un esercito di sospetti da controllare, 11 mila solo in Francia, con un nocciolo di 2 mila. Ottocento in Belgio». Uno dei terroristi di Parigi «era nella “no fly list” Usa e altri nel Tide, database americano con 1,1 milioni di persone», ma è ovvio che lì dentro c’è di tutto, dal vero terrorista al pazzo esaltato, e dunque l’informazione diventa «inutile». «Un magistrato francese ha ammesso: siamo stati travolti».

IL KAMIKAZE RILASCIATO. In effetti a leggere il Corriere non sembra così difficile per un aspirante jihadista scampare all’intelligence in Europa. Qui, racconta Olimpio «ci si affida a intercettazioni, verifiche a distanza. Non ci sono abbastanza uomini per il lavoro sul terreno, si sbagliano valutazioni. Servirebbero infiltrati, contatti diretti, un lavoro a volte “sporco”. A febbraio, Abaaoud ha lanciato minacce con un’intervista alla rivista dell’Isis Dabiq e in quel periodo la Turchia ha consegnato ai belgi Brahim Abdeslam, futuro kamikaze. L’hanno lasciato andare dopo un interrogatorio».

TROPPO TARDI. Che dire della «connessione» tra Francia e Belgio, più volte segnalata dai servizi turchi e di fatto sempre sottovalutata da quelli francesi, nonostante il fatto che lo stesso legame era già emerso nell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo? A ottobre, poi, dal Marocco è arrivata un’altra notizia che adesso – ma solo adesso – appare clamorosa: un fratello di Abaaoud, arrestato, rivela «che il terrorista non è a Raqqa, come l’intelligence pensa, ma alla periferia di Parigi. Tardi per impedire il massacro». E pensare che negli stessi giorni «tre differenti apparati francesi» intercettano «il telefono di una ragazza difficile. È Hasna, cugina di Abaaoud. Non esce nulla di utile fino alla strage».

ALBUM DI FOTO. I terroristi islamici, conclude Olimpio, sfruttato «burocrazie, lentezze, frontiere aperte». Approfittano del fatto che i servizi europei sono «costretti a inseguire tutte le piste, anche quelle false». Dopo la retata di Bruxelles, conclusasi ieri con il rilascio di quasi tutti i fermati, «si invocano schedature più massicce. Utili se ci sarà qualcuno in grado di interpretarle e l’antiterrorismo avrà fonti tra la gente del Califfo. Altrimenti saranno album di foto». E vai a indovinare qual è la figurina da tenere d’occhio davvero.

Foto Ansa

Tags: Corriere della SeraFranciaIsisstrage parigiterrorismoTerrorismo Islamico
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