![Quello che non siamo. Quello che vogliamo](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/tempi-numero-zero-copertina-1995-345x194.jpg)
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Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Da qualche anno noi ragazzi della Compagnia dei Tipi Loschi del beato Pier Giorgio Frassati condividiamo uno stand al Meeting di Rimini con amici provenienti da tutta Italia. Ma più che amicizia, ci piace definirla come un vero e proprio matrimonio che è stato celebrato quasi vent’anni fa con la fondazione della Confraternita Santa Caterina da Siena. Enrico Tiozzo, Marco Sermarini e Michelangelo Rubino hanno scelto questa come la strada migliore per aiutarsi a concepire in un modo diverso il lavoro. Sono cresciuto assorbendo questi ideali e vivendo spesso da spettatore nelle tante occasioni nate, quindi sono arrivato all’università con l’ardente desiderio di vivere un’amicizia così grande in primis con i miei amici di San Benedetto e con gli altri di tutta Italia che negli anni avevo conosciuto.
Come si poteva mettere in pratica tutto ciò? In un pomeriggio di agosto, proprio al Meeting, insieme a Carlo Tellarini, Enrico Tiozzo e Federica Graci, noi ragazzi abbiamo trovato nella mostra “Noi oltre il Muro” uno strumento per vivere con più costanza questa amicizia che prende il nome di Confraternita Young.
La mostra è pertanto il frutto di un incontro tra diverse realtà amiche che hanno deciso di cogliere una buona occasione per condividere la realizzazione di un progetto che potesse essere un’occasione per guardare i fatti della storia da un’altra prospettiva. Questo progetto è stato iniziato dai gruppi universitari dei Tipi Loschi, degli universitari di Cl di Ferrara e di Bologna, dal gruppo degli Aficionados, dai giovani del Verbo Incarnato e da preziose guide esperte in materia. Sebbene i nostri piani siano stati scombussolati dalla pandemia, abbiamo saputo sfruttare il tempo e le strumentazioni che avevamo in mano per sentirci con maggior frequenza di quanto non avremmo fatto prima.
La mostra tenta di rispondere alla domanda: “Si può riconoscere la verità? Se sì, come?”, e in questo il modello sono state le amicizie e le solidarietà nate tra alcuni cittadini dell’Est Europa e altri che vivevano nel “libero” Occidente ai tempi dei grandi regimi comunisti. Tante sono le vicende e i personaggi che abbiamo voluto mettere a tema, perché reputati come esempio di vita in una società che al tempo richiedeva talvolta il sacrificio della vita stessa per seguire un ideale.
«Nei loro occhi non c’è una decisione coraggiosa, non la temerarietà eroica, ma un sollievo felice. Insieme o da soli vanno incontro ai carri armati, ai cannoni, alle mitragliatrici pronte a sparar loro. Niente è loro più caro della loro dignità umana riguadagnata».
Così Géza Ottlik, scrittore ungherese, descrive i manifestanti che nel 1956, sulla scia delle rivolte in Polonia, tentavano di insorgere a Budapest contro il regime.
Se quelle persone erano disposte a rischiare la loro vita per la vera libertà, perché anche oggi noi giovani, a cui non manca quasi nulla, non possiamo batterci per i nostri ideali ed essere testimonianza attiva in questa società che sta perdendo la rotta? «Se la Russia è quello che è, è perché io sono quello che sono», scriveva padre Romano Scalfi, fondatore del Centro Russia cristiana. Allora noi ci possiamo domandare:
«Se l’Italia è quello che è, se il mondo è quello che è, è perché io sono quello che sono (…) Hanno chiesto a Gorbaciov qual sia stato il colpo che ha fatto cadere il comunismo e lui ha risposto: una nuova cultura. La cultura del samizdat, la cultura dei dissidenti, la cultura che metteva la persona al di sopra di tutto, la persona legata a Dio».
Noi dovremmo essere una presenza viva, una presenza di contraddizione nella società, ma è ormai difficile che ci ritroviamo e ci distinguiamo in questo mondo, perché stiamo dimenticando cosa significhi la vera libertà, che è innanzitutto l’esito di una identità e di un’appartenenza a una storia, significa restare attaccati alla verità, anche se ci dovesse costare caro.
La mostra è pronta, stiamo anche lavorando a una presentazione multimediale. Il nostro intento è quello di incontrare più gente possibile, non possiamo accontentarci di uno schermo, perché siamo convinti che tutto si gioca nella carnalità di un rapporto, a cui si può rispondere affinché il dialogo non rimanga solo “filosofia”. Vi lascio con la conclusione della mostra, una frase di san John Henry Newman che mi è rimasta in mente e che è un augurio a tutti quelli che ascolteranno il nostro lavoro:
«Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che possa non incominciare mai davvero».
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