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Home Chiesa

Il vicario aborigeno di Cristo

Così san Newman difese la coscienza dalla riduzione a opinione operata dalla modernità. E ancora oggi ha qualcosa da dirci su verità, libertà, moralità (e obbedienza al Papa)

Alberto Frigerio
22/11/2019 - 1:00
Chiesa
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Una versione ridotta di questo articolo è contenuta nel numero di Tempi di novembre 2019.

Don Alberto Frigerio è professore incaricato di Bioetica presso l’Issr, Milano, e docente di Religione presso il Centro formazione professionale In-Presa, Carate Brianza. Laureato in Medicina e Chirurgia, ha conseguito un master in Neuroscienze presso la University of Edinburgh, Scozia. Ha conseguito la licenza e il dottorato in Sacra Teologia al Pontificio istituto Giovanni Paolo II a Roma.

***

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Il tempo presente è abitato da due figure di coscienza: emotivista, che intende l’esperienza come sentire, e sociologica, che intende l’esperienza secondo quanto dicono i più. La prima trova formulazione nell’hashtag obamiano #loveislove, che esprime la posizione del soggetto ripiegato narcisisticamente su di sé per soddisfare le proprie emozioni e ritiene che qualunque azione (sessuale) sia buona, purché sentita e voluta dal soggetto. La seconda è ben descritta nel testo Il potere dei senza potere (1978) dell’allora dissidente politico Václav Havel, in seguito primo presidente della Repubblica Ceca, secondo cui la dittatura ha un tratto paradossale, in quanto la persona è al contempo vittima del potere, che aliena il soggetto, e supporto al potere, a cui subordina la coscienza per timore di “escludersi dalla società”:

«Parte integrante dell’ideologia assunta è la delega della ragione e della coscienza nelle mani dei superiori, cioè il principio di identificazione del centro del potere con il centro della verità».

Per superare le diverse riduzioni odierne della coscienza e riconquistarne una comprensione adeguata, è utile richiamare la riflessione di John Henry Newman, presbitero e teologo anglicano convertitosi al cattolicesimo, secondo cui l’esperienza è apertura alla realtà e la coscienza è principio di giudizio della verità sul bene, come suggeriva lo stesso Havel:

«La vita nella verità… è un tentativo di assumersi nuovamente le proprie responsabilità: è quindi un atto spiccatamente morale».

Sfondo del dibattito

Nel 1874 Sir William Ewart Gladstone, capo del partito liberale britannico, quattro volte primo ministro inglese, pubblicava i Vatican Decrees, opuscolo in cui denunciava la morte della libertà di coscienza a seguito dell’infallibilità papale proclamata dal Concilio Vaticano I. Per il politico inglese, il dettato conciliare comportava la destituzione e rinuncia all’esercizio della coscienza, sacrificata al volere dell’autorità papale:

«Ogni convertito e membro della Chiesa del Papa ripone la sua lealtà e il suo dovere civile alla mercé di un altro».

Nella polemica antinfallibilistica di Sir Gladstone risuonava l’ingiunzione kantiana del sapere aude!, con cui un secolo prima il filosofo di Königsberg aveva esortato la ragione a emanciparsi da ogni forma di autorità, per conoscere con audacia e libertà:

«L’illuminismo è l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza».

In risposta all’accusa mossa da Gladstone, amico di vecchia data fin dai tempi di Oxford, Newman scrisse la Lettera al Duca di Norfolk, leader politico dei cattolici inglesi, che lo aveva sollecitato a esprimersi al riguardo. Lo scritto offre un’interpretazione della definizione dell’infallibilità papale ortodossa e al tempo stesso tra le più moderne, capace di evidenziare i limiti tanto della posizione liberale, di chi rifiutava il dogma, quanto di quella intransigente, di chi ne dava una lettura estensiva.

Tale dibattito animava anche la controversia tra gallicani, che propendevano per una certa autonomia delle chiese locali da Roma, e ultramontani, che chiedevano il rafforzamento dell’autorità pontificia. Al centro della lettera si ha il nesso tra coscienza e autorità in riferimento alla verità.

Coscienza e verità

Newman denuncia la contraffazione moderna della coscienza, che la riduce a libertà di compiere ciò che più aggrada:

«La coscienza è la voce di Dio, mentre oggi va di moda ritenerla una creazione dell’uomo… Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio».

Newman rilegge i pronunciamenti dei papi Gregorio XVI e Pio IX, sovente ritenuti contrari alla libertà di coscienza, come contestazione della riduzione della coscienza a opinione personale:

«Si è creduto che i Papi di questo secolo si fossero pronunciati contro la coscienza nel senso profondo del termine. In realtà si sono levati contro i suoi falsi significati».

I Papi del XIX secolo condannano l’indifferentismo morale, che intende la coscienza come libertà da, svincolata dalla verità o fautrice della stessa. In tal senso, la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa, secondo cui «tutti gli esseri umani sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità», non sconfessa l’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI né il Sillabo di Pio IX, ma li integra col tema della libertà giuridica, invitando a istituire un diritto negativo che tuteli la coscienza soggettiva da costrizioni esterne:

«Gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione… così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa… Questo diritto degli esseri umani alla libertà religiosa dev’essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società».

All’indifferentismo moderno, Newman contrappone la coscienza come libertà di aderire alla verità. «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri», in primis ricercare la verità e sottomettersi ad essa. La coscienza giudica e distingue le azioni che sono degne di apprezzamento e è lecito compiere da quelle che sono motivo di disprezzo e non è lecito compiere. La coscienza è voce di Dio che ingiunge il bene e interdice il male: «La coscienza è vicario aborigeno di Cristo, profeta» che parla per bocca di Dio e consente di apprendere la legge divina. La coscienza è luogo dell’incontro tra Dio e la persona, come documenta il fatto che, ogni qual volta il soggetto compie azioni inique trasgredendo al suo dettato, avverte un senso di responsabilità, come di chi si trova al cospetto di una presenza autorevole:

«Se ci sentiamo responsabili per aver trasgredito la voce della coscienza, ciò suppone che ci sia Qualcuno verso il Quale siamo responsabili» (Scritti filosofici).

La controversia moderna sulla coscienza vede contrapposti il principio liberale, secondo cui la coscienza è opinione personale che decide ciò che è bene e male e nessuno ha l’autorità di giudicare, e principio dogmatico, secondo cui la coscienza è facoltà che giudica ciò che è bene e male illuminata dalla luce della Verità:

«Esistono due modi di concepire la coscienza morale. Nella prima, la coscienza è solo una forma di intuito verso ciò che è opportuno, nella seconda è l’eco della voce di Dio» (Sermoni).

Come si legge nel Biglietto-Speech di ringraziamento indirizzato a papa Leone XIII che lo aveva creato cardinale, Newman non smise mai di contrastare il principio liberale, che nega ogni verità positiva e riduce le diverse espressioni a opinioni equivalenti, opponendogli il principio dogmatico, secondo cui c’è una sola verità che tutti devono ricercare e a cui devono conformarsi. Quanti rifiutassero consapevolmente di farlo, cadrebbero in grave errore.

La coscienza non è fautrice della norma morale, come recita il principio immanentista moderno, ma ha il compito di ricercare la verità:

«Vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori» (Lo sviluppo della dottrina cristiana).

Compito dell’autorità

La riflessione sulla coscienza in relazione alla verità apre al tema dell’autorità. I criteri dell’agire morale sono riposti nell’animo e costituiscono il segno distintivo della creatura umana, in cui il Creatore imprime la propria impronta. La coscienza, tuttavia, non va intesa nell’ottica di un innatismo razionalista, quasi che esercitasse la propria funzione giudicante in maniera automatica. Al contrario, l’orientamento al bene cresce e si precisa in un cammino educativo:

«La coscienza è un principio impiantato in noi, anteriore a qualunque forma di educazione, benché l’educazione e l’esperienza siano necessarie al suo sviluppo, alla sua crescita, alla sua giusta formazione».

I principi morali, posti in nuce nello spirito umano, maturano grazie all’educazione e all’esperienza, al pari del linguaggio, che è capacità di tutti gli esseri umani il cui sviluppo dipende in larga parte dal contesto comunicativo in cui lo si apprende.

In questa prospettiva si comprende la disputa tra Newman e Sir Gladstone (cfr Kant) sul tema dell’autorità papale. Mentre quest’ultimo riduce la coscienza credente a organo esecutore dell’insegnamento papale, Newman afferma che tanto l’autorità papale quanto la coscienza del singolo fedele hanno per referente la Verità. In tal senso, la funzione dell’autorità papale non è sostituirsi alla coscienza né tantomeno dettare una propria verità, ma porsi a servizio della coscienza, educandola a riconoscere e perseguire la Verità:

«La sua ragion d’essere [dell’autorità papale] sta in questo, che è campione della legge morale e della coscienza… La religione naturale, per quanto siano certe le sue basi e dottrine per le menti serie e profonde, perché possa parlare con efficacia alle masse e conquistare il mondo ha bisogno di essere sostenuta e completata dalla Rivelazione».

Se esercitata adeguatamente, l’autorità – qualunque forma assuma: genitoriale, ecclesiale… – non lede la coscienza morale, ma la sostiene nel riconoscere e aderire alla Verità. In questa cornice, che pone la Verità all’origine tanto della coscienza quanto dell’autorità, e che intende l’autorità quale ponte che traccia la strada per l’incontro tra coscienza e Verità, si coglie tutta la sottigliezza e arguzia del brindisi che Newman dedica alla coscienza:

«Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa».

Certo, Newman non si sottrae dal considerare la possibilità che il Papa, al di fuori dei pronunciamenti che godono dell’infallibilità, cada in errore, dando contro-testimonianza, proprio come può accadere all’autorità genitoriale. L’infallibilità papale riguarda le verità di fede e morale proclamate ex cathedra (Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor Aeternus) o nell’ambito dell’ordinario et universali magisterio (Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius). Nel primo caso, il Papa parla come Maestro universale, in nome e con l’autorità degli Apostoli, con l’intenzione di vincolare ciascun fedele ad accettare e credere alla sua decisione. Nel secondo caso, il Papa dà voce al magistero ordinario e universale, che è tale quando si estende su un lasso di tempo abbastanza lungo da coprire una serie di pontificati e riguarda una tradizione dottrinale assodata.

Negli altri casi, i pronunciamenti papali non sono esenti da errori. Come insegnano il cardinale Juan de Torquemada e san Roberto Bellarmino, il Papa potrebbe addirittura insegnare contro la Scrittura e la Tradizione, in tal caso, il fedele dovrebbe resistere anziché obbedire:

«Se il Papa ordinasse qualcosa contro la Sacra Scrittura, gli articoli di fede, la verità dei sacramenti, i comandamenti della legge naturale o divina, egli non deve essere obbedito e non bisogna curarsi dei suoi ordini… Come è lecito resistere al Papa se assale una persona, è altrettanto lecito resistergli se assale le anime».

Prosegue Newman:

«Sono lontano dall’affermare che i Papi non abbiano mai torto; che non ci si debba mai opporre a loro, oppure che con le loro scomuniche abbiano sempre effetto. Non sono tenuto a difendere la politica e gli atti di singoli Papi… Fu forse san Pietro infallibile quando ad Antiochia Paolo gli si oppose a viso aperto? O fu infallibile san Vittore allorché separò dalla sua comunione le Chiese dell’Asia, o Liberio quando, ugualmente, scomunicò Atanasio? … Nessun cattolico pretende che questi Papi siano stati infallibili nel compimento di simili azioni».

Certo, conclude Newman,

«per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema, benché non infallibile, del Papa, essa [la coscienza] dev’essere qualcosa ben maggiore di quell’infelice contraffazione che viene ora popolarmente intesa».

Come è per l’obiezione di coscienza in ambito civile, l’eventuale opposizione all’autorità istituita non si radica nell’autonomia del soggetto di fronte alla norma né nel disprezzo dell’autorità, ma nella coerente fedeltà alla fondazione morale della legge.

Coscienza, autorità e verità

La riflessione di Newman va al cuore della vicenda morale, in cui la coscienza si realizza nell’adesione alla verità del bene: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). In Newman la coscienza è testimone della verità (Rm 2,15 e 9,1; 2 Cor 1,12), che l’autorità ha il compito di indicare e richiamare (1 Cor 11,1). La prima e fondamentale obbedienza richiesta alla coscienza è alla verità. L’obbedienza tributata all’autorità è fondata – e giustificata – nella verità che l’autorità indica e invita a perseguire insieme.

La verità è limite all’autorità stessa, che le impedisce di trasformarsi in autoritarismo dispotico. È quanto dichiara il Concilio Vaticano II a riguardo dell’autorità ecclesiale:

«Il magistero [della Chiesa] non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum).

Il brindisi alla coscienza non è un inno al soggettivismo, che Newman contrastò lungo tutta la sua vita – egli utilizza il termine conscience, che ha consistenza etica, e non consciousness, che ha consistenza psicologica – ma richiamo alla dipendenza della coscienza dalla verità, al cui servizio si pone l’autentica autorità.

La coscienza, sostenuta dall’autorità, ha la responsabilità di ricercare la verità impressa del reale, che ne garantisce la piena realizzazione. La libertà non si esaurisce nella capacità di scelta ma si compie nella capacità di riconoscere e scegliere ciò che è bello, buono e vero, come attesta l’evento amoroso, in cui il sorgere della preferenza per la persona amata realizza l’attesa costitutiva di amare e essere amato che abita la libertà.

Newman relativizza l’autorità, nel senso che la pone in relazione e al servizio del rapporto tra coscienza e verità: la coscienza ha diritti rispetto all’autorità perché ha doveri nei confronti della verità!

Foto Ansa

Tags: coscienzaJohn Henry Newmanlibertà di coscienzaPapa Francescovaclav havel
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