L’omofobia dei media che nel suicidio di un ragazzo vedono solo una vittima gay
Orlando Merenda: cade l’ipotesi di bullismo e omofobia. Si indaga su un ricatto. Aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Domenica 20 giugno il ragazzo di 18 anni di Torino, dopo aver pranzato con papà e fratello e aver telefonato alla sua mamma, che in seguito alla separazione era tornata a vivere in Calabria, è uscito di casa. Ha detto «torno presto» e invece si è tolto la vita gettandosi sotto a un treno tra la stazione di Lingotto e Moncalieri.
I giornali hanno dato la notizia della sua morte sicuri del movente e del colpevole: Orlando Merenda è l’ennesima «vittima di bullismo omofobo». Si è ucciso per fuggire ai pregiudizi delle «menti chiuse che hanno la bocca aperta» (da una sua frase scritta su Instagram a marzo). Si è tolto la vita «perché vittima di omofobia», «stanco degli insulti e delle offese continue», «deriso e insultato perché era gay».
La mamma comprensibilmente cerca il responsabile della morte del suo ragazzo, «mio figlio non era depresso, era oppresso. C’è una bella differenza», dice al Corriere. «Io purtroppo ero lontana e non potevo accorgermi di niente, ma credo che qualcuno lo possa aver preso di mira. Lo hanno bullizzato e devono pagare per quello che hanno fatto», «Si sentiva una principessa», «ma nel 2021 ci sono ancora persone cattive che questo non riescono ad accettarlo. E devono pagare».
«Una storia di bullismo e omofobia»
I giornali pubblicano stralci di una lettera dell’amico Mattia, «per noi, che abbiamo un orientamento sessuale differente non è sempre facile. Siamo costantemente bombardati da occhi, parole, gesti, suoni. Siamo quelli che sono strani, quelli da intervistare con domande come “chi fa l’uomo?”». E intervistano il padre e il fratello. Il ragazzo aveva rivelato a entrambi di avere paura di “un paio di persone” di avere ricevuto minacce, «era turbato». Entrambi collegano il suo disagio alla sua omosessualità da qualcuno derisa o non accettata. «Ma non ha fatto nomi», «non aveva aggiunto altro». Tanto basta ai media: «Non ha lasciato nessun biglietto. Ma la morte di Orlando Merenda, che aveva appena 18 anni, è una storia di bullismo, sofferenza e omofobia».
L’indagine per istigazione al sucidio
Ieri però la pm torinese Antonella Barbera, sequestrati cellulari e account, sentiti gli amici, gli insegnanti e i compagni dell’istituto alberghiero che il giovane frequentava per diventare barman e i colleghi del bar dove aveva appena terminato uno stage, ha aperto altre piste: istigazione al suicidio. Qualcuno, scrive il Corriere, parla di «un brutto giro» e di un vago «ricatto» che il ragazzo non sapeva come affrontare. Confidenze che Orlando avrebbe fatto a ragazzi e docenti. Repubblica scrive che Orlando «sarebbe finito in una situazione più grande di lui da cui voleva fuggire. Incontri con adulti che potrebbero aver approfittato di lui quando era ancora minorenne», «compare l’ipotesi di un ricatto. Se “a sfondo sessuale” per ora nessuno si sbilancia».
La Stampa non si rassegna
Ma se le ipotesi di bullismo e omofobia sono state escluse dalla procura, non è possibile cancellarle dalla narrazione. Fin dal primo momento Orlando Merenda non è stato un ragazzo che si era tragicamente tolto la vita ma una vittima di omofobia. «Il coming out dell’apprendista barista non era stato compreso da tutti. Qualcuno vicino a lui l’avrebbe messo in discussione. E questa è la ragione per cui si sarebbe sentito respinto, se non addirittura abbandonato», ha scritto la Stampa.
Che dopo aver riportato en passant l’aggiornamento dei pm, «per il momento, comunque, l’ipotesi del bullismo non trova alcun fondamento investigativo», insiste solo sull’omosessualità del ragazzo, sull’immagine della panchina arcobaleno che gli amici gli hanno dedicato nel giardinetto di fronte al cavalcavia da cui Orlando si è buttato. Su cui campeggia la scritta «il bullismo omofobo, nemico dell’omosessualità ma anche della gentilezza, del rispetto, della socievolezza» (è una frase di Elton John), il messaggio «senza più giudizi» in un mazzo di fiori, «Perché comunque, Orlando aveva qualche mostro che lo dilaniava». E quel mostro oggi non poteva che essere l’omofobia.
Il ragazzo dai pantaloni rosa
Eppure i precedenti non mancano: non era omofobia la causa della morte del liceale «con i pantaloni rosa». «Non era un caso di omofobia e nemmeno di bullismo» dovettero ammettere i giornali un anno dopo che Andrea Spaccacandela, alunno del liceo Cavour di Roma, si tolse la vita impiccandosi in casa. Era il 2012 e i media lo trasformarono immediatamente in un simbolo dell'”emergenza omofobia”, il suo cadavere venne trascinato in mille iniziative politico-mediatiche rinfocolate dagli insulti (che anche per Orlando non sono mancati: “morte ai gay”, ha scritto qualcuno sulla sua pagina Instagram in mezzo a migliaia di messaggi di cordoglio e solidarietà) pubblicati sui social e le pesanti accuse della madre e del padre contro i compagni. “Omofobia, Roma fermi la strage”, titolarono i giornali. E alla fine si scoprì che il ragazzo non solo non era mai stato bulizzato ma non era nemmeno omosessuale.
Padova, non fu agguato omofobo
Non fu un agguato omofobo, come gridarono Saviano e Fazio, ma una rissa quella scoppiata a Padova lo scorso settembre: pugni, bottiglie, due giovani omosessuali che denunciano su Facebook di essere stati «violentemente picchiati dopo un’aggressione a sfondo omofobo». Politici, giornalisti, cinquecento persone avevano allora manifestato a Padova contro l’omofobia. E poi? Sono finiti indagati per rissa anche i due gay. Che nessuno sapeva che fossero omosessuali, sono stati loro a urlare “omofobi” ad altri ragazzi durante la schermaglia.
La strumentalizzazione pro Zan
Qui non si vuole fare la conta dei casi disattesi di omofobia. Solo ricordare che nel dare per scontata la matrice “omofobica” buttandola in rivendicazione di pene, leggi, brandire una tragedia e il suicidio ancora misterioso di un ragazzo («serva come monito per dire “mai più”», ha subito tuonato Marco Giusta, assessore ai Diritti della Città di Torino, «C’è una società che ancora genera discriminazione a partire dalle differenze. Per questo servono leggi, come il ddl Zan, che vadano in quella direzione», «un ragazzo gay di 18 anni si suicida a Torino», twitta Laura Boldrini, «serve altro? #ddlzansubito») si arriva all’osceno paradosso di ghettizzare l’omosessualità e seppellire la verità.
Non c’è scampo per i gay
Non c’è scampo per un ragazzo gay, la sua fragilità, la sua richiesta di aiuto espressa a cari e compagni, «ho paura». Un ragazzo condannato al recinto della vittima perché così serve al giochino, sempre lo stesso: usare un caso tremendo di cronaca per gridare all’emergenza. È stato così per il suicidio di Seid Visin, «ucciso dal razzismo che si respirava in Italia»: anche nel suo caso, come in quello di Orlando, si parlò di macigno, di «peso infame dello sguardo del razzismo» e poi si scoprì che razzismo e discriminazioni non c’entravano nulla.
Ma giornali e social non avevano visto nient’altro che questo in Seid Visin, un ragazzo di colore, usato per tornare a parlare di ius soli, ius culturae e “destra mandataria”. Così come in Orlando Merenda non hanno visto nient’altro che questo: un ragazzo gay. Usato per spingere una legge Zan peraltro incapace di aggiungere altro a quelle già presenti (lo spiega il triste caso della tragedia della morte di Paola Gaglione).
La balla del mostro di Moncalieri
Zan, già a suo tempo depositario con gli onorevoli Lavagno, Pilozzi, Piazzoni e Marzano di interrogazioni urgenti sulla professoressa Adele Caramico, insegnante di religione di Moncalieri, accusata da un alunno gay di aver detto in classe che gli «omosessuali devono curarsi». Era il 2014, i deputati chiedevano se il ministro dell’Istruzione fosse a conoscenza dei fatti e «come intendesse procedere per contrastare casi analoghi di omofobia dei docenti negli istituti statali”».
Solo che i fatti erano balle: il “mostro omofobo di Moncalieri” sbattuto su tutte le prime pagine non era un mostro e non era omofobo, si trattava solo di balle che uno studente aveva raccontato prima all’Arcigay e poi ai media. «Nessuna frase omofoba, nessun invito a curarsi: solo l’ennesimo pretesto per millantare persecuzioni e, con l’occasione, sollecitare l’approvazione del “decreto Scalfarotto” (con il quale la prof. sarebbe stata direttamente avviata alla galera)», scrisse il Foglio.
Numeri, palazzi e loghi verniciati
E ora c’è il ddl Zan. E ci sono anche i numeri: quelli necessari ad approvare il provvedimento (la somma di Pd-M5s-Leu non ha la maggioranza al senato) ma anche quelli dell’”emergenza omofobia”. Come abbiamo già scritto, dati dell’Oscad (Osservatorio del ministero dell’interno in cui affluiscono i dati di Polizia e carabinieri) dal 2011 al 2019 le segnalazioni (ripetiamo: segnalazioni) sono state 316. Per capirci, come ha notato Filippo Facci, le sole profanazioni di tombe per odio razziale e religioso, in Italia, risultano essere quattro volte di più (146 all’anno).
Ora c’è il ddl Zan, brandito come pronto soccorso psicologico e panacea dei mali dell’uomo, l’arcobaleno che dall’inizio di giugno s’innalza in difesa dei diritti degli “oppressi”, illuminando piazze, palazzi, stadi, canali televisivi, account, facendo marciare Gesù in versione Lgbt. Guardandosi bene dall’irridere il profeta dei paesi che criminalizzano l’omosessualità: mica per niente dopo aver verniciato di arcobaleno i suoi loghi la Serie A si è guardata bene dal colorare quello nella pagina twitter del suo profilo arabo.
Il suicidio sotto gli arcobaleni
«Un giovane ragazzo di Torino ha voluto interrompere la sua vita, perché sporcata ogni giorno da masse di cretine che deridevano la sua omosessualità. E la Chiesa cosa dice? Si preoccupa della violazione del concordato» scrive indignata Annamaria Bernardini De Pace. E in mezzo al chiasso, i servizi, gli arcobaleni, i parapiglia c’è lui, Orlando. Che a soli 18 anni, mentre il mondo celebrava in pompa magna l’orgoglio Lgbt, si è buttato sotto un treno e nessuno si è fatto domande vere: è gay, quindi non può che essersi ucciso per omofobia. Qualunque sia il movente, il colpevole, la narrazione data per scontata del suo terribile suicidio dovrebbe dirci molto di come noi guardiamo i ragazzi. E di come Orlando si sentiva guardato da noi.
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