Siria. Vaccinare gli uomini dal virus jihadista

Di Rodolfo Casadei
11 Aprile 2019
Reportage da Aleppo dove grazie al vicario apostolico dei latini Georges Abu Khazen e il gran mufti Mahmood Akam è stato piantato un seme di riconciliazione

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DAL NOSTRO INVIATO IN SIRIA – ALEPPO. Ad Aleppo est è operativo un progetto che si fa carico principalmente della condizione dei “figli della guerra” e delle loro madri. Sono circa 3 mila i bambini figli di ribelli jihadisti che hanno abbandonato la prole al momento della ritirata o che sono caduti in battaglia. Le madri non sono state sposate regolarmente, oppure sono state semplicemente abusate, assegnate ai combattenti contro la loro volontà. Il progetto si chiama “Un nome e un futuro” (perché affronta anche la problematica della registrazione anagrafica dei bambini e l’assegnazione del cognome materno, cosa fino ad oggi impossibile con la vigente legislazione siriana) e si articola nella creazione di quattro centri in quattro quartieri poveri di Aleppo est. Due di questi centri, nei quartieri di Karem al Doadoa e di al Shaar, sono già operativi da sei mesi, e nelle rispettive quattro stanzette dei rispettivi palazzoni ospitano corsi di alfabetizzazione femminile, di logopedia per bambini con problemi di articolazione della parola, di musicoterapia, di inglese, di fisioterapia per feriti e mutilati di guerra, di attività mirate al recupero e allo sviluppo psico-fisico dei bambini.

Un’iniziativa benemerita

In quartieri dove né l’elettricità né l’acqua sono ancora disponibili, se non grazie a generatori diesel e camion che riempiono cisterne, mentre macerie e rovine fanno ancora bella mostra di sé tutto intorno. Un’iniziativa benemerita che acquista le caratteristiche dell’eccezionalità quando si scende più nel dettaglio della sua genesi: il progetto è promosso dai francescani attraverso l’Associazione Pro Terra Sancta, si svolge in quartieri musulmani al 100 per cento ed è approvato e benedetto dal gran mufti della città Mahmood Akam (per capirci: il locale “arcivescovo” islamico). Soldi raccolti dai cristiani per un progetto che ha beneficiari tutti musulmani. In una città dove i combattenti islamici hanno intenzionalmente bombardato le chiese cristiane e preso di mira i civili dei quartieri cristiani coi loro cecchini, e dove i cristiani sono stati definiti sostenitori e complici di un regime che bombardava senza andare per il sottile i quartieri dei musulmani sunniti.

Cristiani che aiutano i musulmani

Se un progetto così provocatorio e fuori dagli schemi ha potuto prendere forma, è stato per la volontà irriducibile di tre persone: il vicario apostolico dei latini Georges Abu Khazen, il gran mufti Mahmood Akam e il padre francescano Firas Lufti, che è il direttore sul campo. Se avessero messo ai voti presso le rispettive comunità il loro progetto, il vescovo francescano e la massima autorità sunnita aleppina sarebbero stati probabilmente disapprovati dalle loro basi: non è popolare fra i cristiani l’idea di utilizzare fondi che potrebbero servire a conservare la declinante comunità cristiana per aiutare invece i musulmani dei quartieri dove erano insediati i ribelli; ed è vista con sospetto fra i musulmani l’idea di lasciare operare nei quartieri musulmani dei religiosi cristiani. Ma tant’è: i centri esistono, ne traggono beneficio quasi duemila persone (mille bambini e 800 donne), le donne velate che all’inizio nemmeno mostravano il volto nascosto dietro a un niqab ora sorridono davanti all’obiettivo fotografico di un telefono cellulare, all’ingresso di un centro uno sconosciuto anziano del quartiere ferma padre Firas per ringraziarlo di quello che i francescani stanno facendo, e altri due centri saranno prossimamente aperti.

Mostrare il vero volto dell’islam

Abbiamo incontrato in due separati incontri gli artefici di questo piccolo grande miracolo, Abu Khazen e Mahmood Akam. Qualche brano di conversazione dà un’idea della loro personalità e delle origini del progetto. «L’islam, religione di valori elevati», attacca Akam, «condivide il destino comune a tutte le cose preziose: viene contraffatta, viene falsificata come i soldi o le opere d’arte. Il compito di noi autorità è diventato pesante, ma non ci sottraiamo: ogni giorno rimuovere le falsificazioni e mostrare il vero volto dell’islam. Ma voi osservatori esterni ci dovete aiutare, dovete abituarvi a distinguere fra l’islam autentico e la sua versione criminale». Per i jihadisti non ha solo parole di condanna: «Il nostro compito è restituire l’umanità alle persone, anche a chi ci ha fatto del male. Fin dall’inizio della crisi io mi sono rivolto ai ribelli per facilitare la riconciliazione col governo. Ho scritto quasi mille articoli nell’ottica della riconciliazione, che sono stati raccolti in due volumi di cui uno è già stato pubblicato col titolo “La riconciliazione è un bene”. Ho incontrato più volte i ribelli jihadisti per una mediazione fra loro e il governo, e continuo ad offrirmi per iniziative di questo tipo. Purtroppo però tante volte ho l’impressione che a prendere le decisioni non siano le persone che incontro, ma qualcuno al di sopra di loro. La canzone che cantano non l’hanno composta loro».

Muoversi contro il male

Dice che dagli avvenimenti accaduti le autorità islamiche hanno imparato un’importante lezione: «Occorre muoversi subito contro il male, altrimenti non lo si potrà poi curare. Oggi controlliamo molto di più i predicatori e li esortiamo al rigore e all’ortodossia. Se parlano del jihad, devono farlo sulla base del Corano e della scienza condivisa, non a partire da un’ideologia o da una loro interpretazione personale. Quando sbagliano li richiamiamo. Se non si lasciano correggere, gli diciamo che è meglio che cambino lavoro. Il nostro compito come religiosi è vaccinare le persone contro il virus jihadista che produce un indurimento del cuore». «Durante la guerra tanti venivano a chiedermi consiglio sul da farsi. Alcuni mi chiedevano di esprimermi sui loro progetti di emigrazione. A loro rispondevo: “Vi dico solo che io resterò”. Dicendo così ho influito su alcuni che hanno deciso di restare. Altri mi facevano capire che simpatizzavano per i ribelli e che avrebbero voluto che anch’io mi schierassi. A loro dicevo: “Alle fine la verità vincerà. Chi è nella verità alla fine vincerà”». Come tutti i siriani, il gran mufti ha perso beni materiali e parenti nella guerra. Ma non è stato abbattuto dallo sconforto: «Abbiamo perso beni e vite, ma abbiamo guadagnato veri credenti. Ora tanta gente ha capito che cosa è islam e che cosa non lo è. Questa terribile crisi è stata uno strumento di purificazione della religione. Inoltre abbiamo guadagnato amici in tutto il mondo, che vengono a visitarci come avete fatto voi».

Perché a noi, Signore?

«Non posso nasconderle che come sacerdoti e come vescovi abbiamo sofferto e soffriamo molto», confida Abu Khazen. «Abbiamo sofferto vedendo che a motivo della crisi alcuni cristiani hanno approfondito la propria fede, altri l’hanno definitivamente perduta. Come se non sentissero la risposta di Dio alla domanda “Perché a noi, Signore?”. Abbiamo sofferto quando la gente si rivolgeva a noi come a degli assistenti sociali, come a un’agenzia umanitaria, cercando esclusivamente aiuti materiali. E soffriamo quando da alcuni ci sentiamo dire: “Abbiamo fatto male a restare qui, anche noi dovevamo andarcene come gli altri”. Ma siamo pur sempre la terra della conversione di san Paolo, la terra con Antiochia (oggi Turchia – ndr) dove è nato il nome “cristiani”, siamo il piccolo gregge che è segno di salvezza per tutti. Anche se i lupi ci circondano, il Buon Pastore è vicino a noi. Sopra a ogni sofferenza, la speranza resta viva. Ci incoraggia l’esperienza di solidarietà che abbiamo vissuto: solidarietà fra di noi, compiendo buone opere di cui non ci credevamo capaci, e solidarietà coi fratelli cristiani di tutto il mondo, coi quali ci siamo sentiti parte di un’unica famiglia, e voi vi siete sentiti parte di noi».

Conversione e riconciliazione

Quando gli si chiede come sarà possibile conciliare giustizia e riconciliazione in Siria, il vescovo francescano risponde: «La riconciliazione è più grande della giustizia. Chiede molto di più. Chiede capacità di sacrificio, generosità, nobiltà d’animo, essere capaci di sollevarsi al di sopra dell’odio. Possiamo avere la giustizia senza avere l’amore per l’altro, e allora serve a poco. Riconciliandoti compi una giustizia più piena per te e per l’altro. Questa è anche l’unica cosa che può portare alla conversione dell’altro, altrimenti si entra nel circolo vizioso delle recriminazioni. Questo è anche il compito dei cristiani. Il senso dei nostri progetti ad Aleppo est non è difficile da capire: abbiamo fatto conoscere la carità cristiana ai musulmani attraverso la nostra gratuità».

Foto di Rodolfo Casadei

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