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Home Esteri

L’apparente normalità di Damasco dopo la guerra. Reportage dalla Siria

Famiglie devastate, abitazioni distrutte, economia al collasso. Il racconto del nostro inviato

Rodolfo Casadei
04/04/2019 - 11:22
Esteri
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Se il nostro inviato è in Siria è anche grazie agli sforzi che stiamo facendo per pubblicare Tempi. Chi vuole sostenerci può farlo abbonandosi. Il viaggio di Casadei è stato realizzato grazie al contributo fondamentale dell’Associazione Pro Terra Sancta che sostiene i luoghi e le comunità cristiane in quelle terre.
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Indicare nella causale: TEMPI PER LA SIRIA

DAL NOSTRO INVIATO IN SIRIA – DAMASCO. Beiji scorre le dita sul suo cellulare, lo sguardo mesto e rassegnato, e una foto a colori lievemente sgranata di un giovane uomo dai capelli ondulati riempie il display. «Il mio Mikail è sparito nel 2012 e nessuno l’ha più ritrovato. Trasportava mobilio per conto dei militari, andava in un villaggio poco lontano da casa nostra. L’ho cercato ovunque nei dintorni di Maaloula, la nostra cittadina, ma senza nessuno risultato. Tranne che sono stata arrestata per tre volte dalle milizie dei ribelli».

 

Beiji, cristiana di Maaloula, aveva sei figli, quattro femmine e due maschi, e uno gliel’ha portato via la guerra. Adesso è qui al convento francescano di Bab Touma, nella città vecchia di Damasco, a fare la fila per i pannolini e il latte in polvere da portare a una delle figlie, che da poco ha avuto un bambino. Il programma neonati è uno dei sette programmi di aiuto ai bisognosi e alle vittime della guerra che la parrocchia latina ha attivato negli ultimi due anni. Ci sono anche programmi di forniture alimentari, farmaceutiche, per il sostegno degli studenti universitari, di sussidi per il riscaldamento, di sostegno psicologico e di musicoterapia. Tremila persone ricevono aiuti con cadenze mensili o bimensili, e non tutte sono residenti nella parrocchia: ci sono sfollati da molte località siriane che hanno trovato riparo nella capitale Damasco. C’è gente che viene da quartieri periferici. Pochi però dalla Ghouta orientale, l’area del governatorato di Damasco dominata dai ribelli dalla quale per sei anni e mezzo – dal 3 novembre 2011 al 14 aprile 2018 – sono stati scagliati razzi e colpi di mortaio sulla capitale. Fino alla sua riconquista da parte dei governativi nell’aprile di un anno fa, dopo una sanguinosa campagna – la decima del governatorato di Damasco dal novembre 2011 secondo gli annali bellici – che ha reclamato le vite di quasi mille combattenti dei due fronti, e di più di 1.800 civili.

 

«La verità è che l’80 per cento della Ghouta è spopolata. Dopo la resa ai governativi i combattenti si sono trasferiti nell’Idlib e i civili si sono sparsi per tutta la Siria, alla ricerca di un tetto e di una nuova vita», spiega Ayham, un giovane dipendente dei programmi umanitari della parrocchia latina. «Siamo andati con gli scout per aiutare nella riapertura di una scuola dell’unica località ancora popolata, ma quel che ho visto è una gran desolazione». «Vedi queste deformazioni dell’asfalto? Qui sono caduti i razzi che hanno ucciso due ragazze e ne hanno mutilata un’altra che ha perso una gamba nel febbraio dell’anno scorso. Per tre settimane nessuno poteva più passare da qui, era impossibile andare al lavoro», racconta Fadia, anche lei dipendente della parrocchia latina per le comunicazioni e gli aiuti umanitari.

 

Siamo nel pazzale di Bab Touma, l’antica porta romana che dà il nome all’omonimo quartiere del centro storico di Damasco: il convento francescano e la chiesa parrocchiale si trovano a 200 metri da qui. Un tempo quartiere eminentemente cristiano, oggi ospita abitanti di varia estrazione religiosa. Sul lato sinistro della porta si scorge un abitato dove molti segni rimandano a una forte presenza sciita: all’ingresso di una via pendono i ritratti dell’ayatollah Khomeini, dello sceicco Nasrallah leader degli Hezbollah libanesi e di altri leader politico-religiosi; sulle antiche mura che circondavano questa parte della città già ai tempi di san Paolo sono incollate decine di ritratti di “martiri” della guerra, individuabili come sciiti per il colore verde dello sfondo.

 

CARBURANTE: DA 14 A 138 LIRE AL LITRO

 

Finito l’incubo dei razzi, dei lanci dei mortai, dei colpi dei cecchini Damasco è tornata a vivere, della vita confusa, debordante, vitale e polverosa di tante capitali arabe. Negozi pieni di ogni genere di merce, spesso riversata sui marciapiedi, strade impercorribili negli orari di punta, aria satura di gas di scarico, pedoni che attraversano con zigzag impensabili le traiettorie di camion e taxi. Il segno distintivo della capitale siriana di questi primi dodici mesi senza guerra potrebbe essere la peculiare miscela di giovani soldati in mimetica cotti dal sole, abbronzati come bagnini, e di giovani donne ugualmente ripartite fra velate e non velate; sunnite dal rimmel perfetto e dalle chiome rigonfie sotto il foulard bianco, cristiane e alawite dai lunghi capelli sciolti ma accuratamente strinati alla piastra, anch’esse perfette negli occhi bistrati di nero.

 

«La normalità è apparente, la città sta facendo i conti con la più grave situazione economica dall’inizio della crisi nel 2011», spiega padre Raymond, superiore del convento francescano di Tabbaleh, dove si trova il memoriale di san Paolo. «Prima della guerra il costo della vita per una famiglia di quattro persone era di poco superiore alle 20 mila lire siriane, adesso ce ne vogliono 200 mila. Il carburante costava 14 lire al litro, ora è arrivato a 138! Ma gli stipendi non hanno seguito la stessa strada: in una famiglia dove padre e madre lavorano, o uno riceve una pensione e l’altro lavora, si arriva difficilmente a 75-100 mila lire. Le merci non mancano, i soldi per comprarle sì! L’ultimo embargo ci ha rovinati».

 

Il padre francescano si riferisce al combinato disposto della ripresa delle sanzioni all’Iran, principale fornitore di energia alla Siria, e delle sanzioni americane ed europee del novembre scorso, che colpiscono tutte le compagnie di trasporti marittimi, le società assicurative e le banche coinvolte nel trasporto di prodotti petroliferi in Siria. Queste nuove sanzioni hanno colpito in maniera generalizzata l’intera popolazione siriana, determinando un rialzo dei costi di tutti i prodotti di consumo a cominciare dal gasolio per il riscaldamento. L’inverno appena terminato è stato tempo di grande tribolazione, e ora in vari quartieri si vedono code di cittadini davanti agli uffici pubblici dove ci si registra e si ritira una nuova tessera annonaria; una “smart card” che dà diritto a due prelievi annuali di mazout, il gasolio per il riscaldamento. Il prezzo calmierato sta a 185 lire al litro, mentre quello di mercato oscilla fra le 400 e le 500.

 

ABBIAMO ISCRITTO I FIGLI ALLE SCUOLE CRISTIANE

 

Il piano rialzato del pensionato annesso al convento francescano di Tabbaleh ospita alcune decine di famiglie che vengono da tutta la Siria per cure mediche specialistiche a Damasco. Si applica una tariffa speciale che permette di soggiornare nella capitale a persone che altrimenti non potrebbero venire qui a curare tumori e altre patologie gravi: a causa dell’aumento della popolazione per il fenomeno degli sfollati dalle aree devastate dai combattimenti (la Siria ha 6,6 milioni di profughi interni, in aggiunta ai 5,6 milioni che si sono rifugiati all’estero) il costo degli affitti è salito alle stelle. Facilmente una famiglia spende quasi tutte le entrate nei costi dell’affitto, che supera normalmente le 50 mila lire per un piccolo appartamento quando lo stipendio di un insegnante è normalmente di poco inferiore a questa cifra.

 

Hanna Bro arriva da Qamishli, nell’estremo nord-est del paese, e dal 21 febbraio alloggia presso i francescani quando non è in ospedale, dove può ricevere cure specialistiche gratuite grazie al programma Ospedali Aperti di Avsi. Il marito è pensionato del pubblico impiego, lei è un’insegnante, hanno due figli adolescenti in età di scuole medie superiori. «Le scuole di Qamishli sono sovraffollate, nelle classi ci sono da 70 a 100 studenti. Allora abbiamo iscritto i ragazzi nelle scuole cristiane, ma ci costano 170 mila lire all’anno, e noi siamo una famiglia che ha entrate per 75 mila lire al mese. Se la situazione non cambia dovremo pensare anche noi, come hanno fatto tanti, all’emigrazione».

 

Non pensa invece a emigrare Housam Damian, originario della provincia di Homs ma da molti anni residente a Bab Touma, dove ha gestito un negozio di telefonia cellulare fino a quando la crisi non lo ha costretto a chiudere. La sua casa è stata colpita quattro volte nel corso degli anni dai colpi di mortaio sparati dai ribelli annidati nella vicina Jobar. L’ultima volta, nel 2016, il 60 per cento dell’abitazione è andata distrutta. La famiglia si è salvata perché era scesa in un rifugio sotterraneo appena udite le prime esplosioni. Il fittavolo si è rifiutato di pagare le riparazioni, Housam che è in affitto ha dovuto provvedere con mezzi suoi. Adesso è qui nella coda quasi solo di donne in attesa di ricevere i pannolini e il latte in polvere del programma neonati attivato dai francescani della parrocchia latina. «Abbiamo due bambini, tre anni il primo e nove mesi il secondo, e le dico la verità: se non avessimo saputo che esisteva questo programma di aiuto alle famiglie, il nostro secondo figlio non sarebbe mai nato».

 

 

Tags: damascoSiria
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