Non esistono in questo momento cieli più affollati di quello siriano. Allo stesso modo, nessun paese al mondo può contare tanti gruppi terroristici sul proprio suolo dove vengono arruolati soldati di decine di nazionalità diverse. Stati occidentali, orientali e mediorientali (si) combattono a Damasco e dintorni, con opposti interessi. Vediamo chi e quali.
SIRIA. Il presidente Bashar al-Assad dopo quattro anni di guerra controlla appena il 25 per cento del paese. Le sue roccaforti (Damasco, Homs, Hama, Latakia) si trovano tutte nella parte occidentale e sud-occidentale del paese. Il suo obiettivo, neanche a dirlo, è innanzitutto sopravvivere e restare in sella. Ogni città che con l’aiuto dei suoi alleati, Russia e Iran, riuscirà a riconquistare sarà oro colato.
RUSSIA. Il presidente Vladimir Putin, cogliendo tutti di sorpresa, ha schierato parte del suo esercito a Latakia: decine di jet, elicotteri, carri e circa 1.500 soldati. Dai primi raid aerei condotti in questi giorni si è ben capito che il suo principale obiettivo è difendere l’alleato di vecchia data Assad (il cui padre era alleato dell’Unione Sovietica) e, di conseguenza, la possibilità di avere uno sbocco sul Mediterraneo e un ottimo acquirente di armamenti. Per questo, Putin ha colpito allo stesso modo i ribelli alleati ad Al-Qaeda, i ribelli armati dagli Stati Uniti e le postazioni dell’Isis. Se l’America infatti distingue tra nemici di Assad “moderati” e nemici di Assad “jihadisti”, per Putin l’unica cosa che conta è che siano nemici di Assad.
IRAN. È di queste ore la notizia, diffusa da Reuters e sostenuta da fonti libanesi, che centinaia di truppe iraniane sono già entrate in Siria e si preparano a combattere via terra contro i sunniti dello Stato islamico. Il regime dell’ayatollah Khamenei è un alleato di Assad e insieme alla Russia è pronto a difenderlo. Teheran vuole prima di tutto che l’asse sciita in Medio Oriente non venga spezzato e che quindi i governi musulmani sciiti di Iran, Siria e Iraq restino saldi al potere. La Siria, inoltre, è il paese attraverso cui l’Iran ha sempre fatto passare gli armamenti alle milizie di Hezbollah in Libano, nemiche di Israele. Difendendo la Siria e il regime di Assad, Khamenei difende il mondo sciita da quella che considera una delle più grandi offensive sunnite di sempre.
IRAQ. Al pari della Siria, è uno Stato sotto assedio dove il governo sciita ha perso gran parte del territorio di sua giurisdizione. Non essendo in grado di riprendere le città conquistate dall’Isis né di proteggere le minoranze cristiane e yazide difese solo dai curdi, conta sull’appoggio iraniano da una parte e americano dall’altra. Vede di buon occhio l’intervento russo, sperando di ricavarne qualche vantaggio, temendo la forse inevitabile partizione del paese in tre: una parte sunnita governata dallo Stato islamico, una amministrata dai curdi e una dall’attuale governo sciita.
TURCHIA. Il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha protestato contro l’intervento di Putin, perché la Russia gli sta rompendo le uova nel paniere. Mantenendo un comportamento ambiguo, da quattro anni chiunque voglia unirsi allo Stato islamico o ad Al-Qaeda contro Assad può passare tranquillamente dal confine turco. Pur minacciando a parole l’Isis, la Turchia ha sempre favorito i jihadisti nella speranza che sconfiggessero Assad e danneggiassero i curdi (forti nel nord e nel nord-est della Siria). Ankara continua a sperare (ha già preparato allo scopo più di un piano militare) non solo di poter sconfinare e occupare un pezzo di Siria ma soprattutto di estendere la sua influenza e fare da padre nobile a un futuro governo sunnita del paese (che guarda di buon occhio alla Fratellanza Musulmana). È quello che viene chiamato il sogno neo-ottomano di Erdogan.
ARABIA SAUDITA E QATAR. Da anni i due paesi arabi armano e finanziano platealmente milizie jihadiste in Siria nella speranza che riescano a vincere la guerra contro Assad. In particolare Riyad e Doha, insieme alla Turchia, sostengono un gruppo jihadista chiamato Esercito di conquista, il quale va a braccetto con Al-Qaeda nella zona di Idlib. Le due monarchie assolute, essendo sunnite, vedono di buon occhio il crollo del governo siriano e sperano che questo possa indebolire il suo grande alleato sciita, unico vero competitor nella regione: l’Iran.
STATI UNITI. Il presidente Barack Obama, che ha sostenuto in tutto il mondo le diverse “Primavere arabe”, ha sempre appoggiato idealmente anche la ribellione siriana. L’America, prima di tutto, vuole vedere crollare il regime di Assad. Dal 2014, Obama ha anche deciso di combattere l’Isis con raid aerei, senza inviare l’esercito. Per supplire alla mancanza di boots on the ground, senza i quali non si può vincere una guerra, e non volendo allearsi con l’esercito siriano, ha lanciato un programma di addestramento di ribelli “moderati” che combattano i jihadisti e il regime per conto degli Stati Uniti. Fino ad ora, il programma è stato un fallimento, le milizie “americane” di ribelli o sono state sbaragliate o si sono unite ad Al-Qaeda portandosi dietro le sofisticate armi “made in Usa”. L’intervento di Putin ha però sconvolto i piani americani e ora Obama potrebbe essere costretto a venire a patti con il nemico russo.
UNIONE EUROPEA. L’Europa non ha una posizione unica ed è sostanzialmente irrilevante nel conflitto siriano. Francia e Inghilterra, soprattutto per ragioni politiche, si sono schierate con gli Stati Uniti e oltre a compiere raid aerei contro l’Isis, insistono sulla necessità che «Assad se ne vada». La Germania, come spesso accade, non si è esposta, mentre l’Italia sottolinea la necessità che non si ripeta un’altra Libia.
VATICANO. Papa Francesco insiste sulla necessità di trovare un accordo politico e di fermare la guerra a ogni costo. I vescovi iracheni chiedono soprattutto che la comunità internazionale intervenga con un esercito per riconquistare i villaggi strappati ai cristiani dall’Isis nella piana di Ninive; i vescovi siriani continuano a ripetere che l’Occidente deve smettere di fare la guerra ad Assad armando i ribelli “moderati” e deve convincere i suoi alleati arabi a non comprare il petrolio dell’Isis e a non armare i jihadisti. L’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Silvano Maria Tomasi, riferendosi soprattutto all’Iraq, aggiunge da anni che una guerra per fermare l’ingiusto aggressore non è sbagliata e non può essere esclusa, purché venga condotta dalla comunità internazionale e decisa dalle Nazioni Unite. Perché, in tutto questo, ogni paese agisce in completa autonomia e anarchia: nessuno ha ottenuto il permesso dell’Onu.
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