Siamo alle solite: la giustizia in Italia non cambia mai. Why not?
Esattamente nove anni fa, quando all’indomani delle sventagliate di avvisi di garanzia e paginate di intercettazioni pubblicate sui giornali ci precipitammo a Lamezia Terme a raccontare la versione di Tonino Saladino, primi e unici della pregiata ditta nazionale dell’informazione a non credere alla marea nera di accuse contenute nelle carte accusatorie di Luigi de Magistris, titolare dell’inchiesta Why not – e che con l’inchiesta Why Not diventò celeberrimo, e con la celebrità acquisita scese in politica, diventò sindaco di Napoli ed è ancora lì, in campagna elettorale per il secondo mandato – sapevamo già come sarebbe finita l’incredibile storia che metteva in capo a un amico che conoscevamo dagli anni di università, esponente di Compagnia delle Opere e titolare di un’azienda di caramelle, la regia occulta di una massoneria che avrebbe avuto ai propri ordini nientemeno che Romano Prodi e, secondo i titoli della grande stampa e tv dell’epoca, una Tangentopoli peggiore di quella milanese del ’92.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]È finita così. In un gigantesco flop. E nella distruzione di una vita, di una famiglia, di un piccolo ma reale patrimonio di umanità che, con tutti i limiti personali e di contesto sociale, aveva provato a impiantare in Calabria un’impresa e realtà di associazioni sociali che offrissero non i blablabla della premiata e finanziata industria statale dell’antimafia di enti, associazioni, manifestazioni, club manipulitisti (e pure con seguito di mafiosi che, vista l’aria, si sono iscritti all’antimafia e a manipulite per darsi un’immagine di ceralacca, come si vede adesso in Sicilia), ma una speranza di futuro a giovani e famiglie la cui unica alternativa sarebbe stata l’emigrazione.
Risultato finale? De Magistris sindaco. E il deserto dietro l’“eroe” dei Santoro e dei Travaglio. Ora, coincidenza vuole che oltre all’ennesima sentenza che ha scagionato Saladino&Co. dall’accusa di aver complottato contro l’eroe, nei giorni scorsi sono finite in fumo anche diciotto anni (18!) di inchieste e otto anni (8!) di dibattimento in un aula di tribunale intorno a Vincenzo De Luca. Mitico sindaco “sceriffo” Pd di Salerno e attuale governatore della Campania, che proprio da quelle inchieste e dibattimento (che grazie a un altro pm d’assalto dal 2006 in avanti presero a incrociare il caso Why Not) è stato ostracizzato, sfregiato e infine iscritto dalla ineffabile presidente antimafia Rosy Bindi nella lista degli “impresentabili”.
Tutta questa lunga premessa per dire cosa? Per dire che siamo sempre lì, a quella che gli storici ricorderanno come la più devastante e sistematica opera di distruzione di valore, dello stato di diritto e del benessere, della società italiana.
Detto altrimenti, con i magnifici titoli e catenacci del Foglio di giovedì 21 aprile, siamo al Fatto Quotidiano dove ti tocca «leggere Davigo a Teheran. La dottrina teocratica del nuovo presidente dell’Anm. Non c’è conflitto tra noi e i politici: basta che si adeguino. La presunzione di innocenza non esiste, si è colpevoli anche prima».
Siamo a Tempa Rossa, dove, passato il referendum sulle trivelle, scema di contenuti e di intensità l’interesse sull’inchiesta che prometteva tuoni e fulmini sul Pd renziano. Cosa ci rimane in mano? Rimane quel che scrive Massimo Bordin: «Il potere legislativo delle procure, i magistrati che sentenziano sulla politica e gli sconfinamenti del potere togato in campi che non dovrebbero essere di sua pertinenza».
Siamo ancora al fatto che «la vera separazione delle carriere da fare è quella tra giornalisti e pm» e al «voglio dire che nel nostro paese i processi si fanno in televisione e sui giornali, nel contesto di un dibattito pubblico esasperato, e di un racconto super semplificato della cronaca, che strumentalizza i casi giudiziari, spesso prescindendo persino dai fatti, per fare lotta politica nel fango ed emette sentenze sulle colonne dei quotidiani o attraverso la schiuma dell’etere nei talk show». Eccetera eccetera. Detto non dal Caimano, ma da Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia proveniente dalla più dura e pura Rifondazione comunista. Tutte cose che noi qui raccontiamo da oltre vent’anni e di cui il giro renziano si accorge solo adesso, avvertendo chiaro e tondo il tintinnar di manette sempre più prossimo a Palazzo Chigi.
Invero, ci sono tante altre cosette che restano da chiarire. Così, solo a titolo esemplificativo, ne rammentiamo tre.
Primo. Se, come dice Davigo, magistrato di Cassazione e neopresidente Anm, uno si dovrebbe dimettere da qualunque poltrona a cui sta “abbarbicato” (verbo caro a Davigo) per il solo fatto di essere coinvolto in un processo penale, perché lui, Davigo, che al Fatto Quotidiano confessa lemme lemme, tranquillo tranquillo, papale papale, «sa, io ho subito diversi processi penali», non solo non risulta si sia mai dimesso o sospeso da qualunque poltrona, ma anzi, è andato di poltrona in poltrona, per aspera ad astra, attraverso le asperità sino alle stelle della Cassazione e dell’Anm?
Secondo. così come si dovrebbero finalmente chiarire le modalità e i mandanti che con l’impasto di inchieste e manine internazionali fecero fuori il Pdl e il signor B., il capo del governo più votato dagli italiani dal dopoguerra al 2008, inchieste e manine che come è noto raggiunsero il loro apice con le speculazioni borsistiche che spianarono la strada al governo Monti, così adesso sarebbe interessante rileggere alla luce del presente quello che soltanto Tempi segnalò nel lontano 2007. E cioè il passaggio nell’editoriale di Calabria Ora del 19 giugno 2007, in cui l’allora direttore Paolo Pollichieni scriveva a proposito dell’inchiesta Why Not e del fiume di intercettazioni diffuse alla stampa: «Trecento pagine per gli amanti del buco della serratura e per consolidare le prospettive di vittoria del gruppetto togato-insurrezionalista che si raduna ogni tanto in un piratesco ristorante lametino. Trecento pagine annunciate da tempo, anticipate nelle redazioni “amiche”, accompagnate da ammiccamenti e battute da bar (“sabato fanno il Partito democratico, lunedì glielo smontiamo”)…». “Sabato fanno il Pd, lunedì glielo smontiamo”. Perché, adesso che sappiamo di che pasta erano fatte certe indagini degli ex pm d’assalto (e quanti ce ne sono di ex pm e d’assalto che sono finiti in politica? E perché e come sono finiti i loro assalti?), non si vanno a riprendere queste chicche e non si fa luce sui presunti “gruppetti togati- insurrezionalisti”, le presunte “redazioni amiche”, i presunti “ristoranti” di comune frequentazione e “le battute da bar”? Curiosità, solo curiosità.
Terzo. Il lettore di Tempi lo sa: chi ha provato a riformare la giustizia, è rimasto fulminato dai fili dell’alta tensione. Ma finché non si riforma la giustizia, l’Italia è condannata a sprofondare nel Terzo Mondo. L’Italia era al G7 nel ’92 ed è praticamente fuori dal G20 nel 2016. Era sopra la media europea di reddito e benessere nel ’92 e nel 2016 è il paese che, dopo la Grecia, conta più poveri in Europa. Era un colosso industriale nel ’92 ed è diventato il deserto deindustrializzato e territorio di shopping internazionale che conosciamo, dove nell’anno 2016 le multinazionali vengono solo per portarci via gli ultimi scampoli di impresa e i gioielli di innovazione e creatività tecnologica di cui gli italiani sono maestri.
Dunque, avanti con il giustizialismo uno, due e tre? Avanti con le ondate dipietriste di ieri e le piene grilline di oggi? Avanti con i manutengoli che hanno impiccato l’Italia alle procure? Sì, ce la possiamo fare ad andare ancora più giù. Ma anche no.
Foto Ansa
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2 commenti
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E in tutte queste lunghe e costosissime ( per noi contribuenti) inchieste sistematicamente sgonfiate,
mai nessuno che paghi? almeno in termini di credibilità.
No, si diventa Sindaco, o altro. E il giornalismo manettaro continua a scodinzolare e a tener bordone.
Un parterre di professionalità cialtrona, che pretende poi di darci lezioni di legalità.
Bravo! Come direbbero i latini: facit indignatio versus. Aggiungiamo: anche l’amicizia.