Se sei titubante, arrenditi al competente

Di Piero Vietti
14 Gennaio 2021
Come siamo giunti a perderci nell’illusione di sbrogliare qualunque guaio consegnandoci nelle mani degli “esperti”? Risponde Lorenzo Castellani, gran indagatore dell’ingranaggio del potere
Conferenza stampa di Silvio Brusaferro sui numeri della pandemia di coronavirus

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Li invochiamo ogni volta che le cose non vanno bene e i rappresentanti eletti non sono all’altezza; vengono chiamati in causa dalla politica incapace di risolvere problemi troppo grandi; aspettiamo un loro cenno quando non sappiamo affrontare le emergenze. Sono gli esperti, i competenti, i tecnici. Dalla seconda metà del secolo scorso hanno influenzato la politica e la società fino a diventare fondamentali per il funzionamento del sistema democratico. Guidano istituzioni non rappresentative a livello statale e sovranazionale divenute imprescindibili, tanto che, scrive Lorenzo Castellani nel suo ultimo saggio, L’ingranaggio del potere (Liberilibri), «l’aggiunta del prefisso “tecno” al termine “democrazia” può aiutare a descrivere meglio la politica del nostro tempo, in cui tecnocrazia e democrazia coesistono dando vita a un regime misto». Docente di Storia delle istituzioni politiche all’Università Luiss Guido Carli di Roma, Castellani premette che «sostenere questa tesi non significa svalutare le conquiste della democrazia liberale ottenute nell’ultimo secolo, ma sottolineare che accanto alla rappresentanza sia cresciuto allo stesso modo, e con un percorso molto meno visibile, il potere tecnocratico». 

Viviamo dunque in una tecnodemocrazia? Nel suo libro Castellani racconta il percorso storico per cui il Ventesimo secolo è diventato, «per dirla con John Lukacs, il secolo della burocrazia». Accanto allo sviluppo dell’idea e delle dottrine democratiche, delle libertà, dei diritti e della partecipazione, negli ultimi settanta-ottant’anni «abbiamo assistito a un’espansione burocratica incredibile», dice a Tempi. Dopo le guerre, «nascono in Occidente istituzioni non rappresentative» e poco per volta il potere si sposta in questi nuovi luoghi. Negli ultimi anni la Banca centrale e la Commissione europea, ad esempio, hanno «sempre di più accentrato funzioni che prima erano in capo agli Stati nazionali», prendendo decisioni che incidono «capillarmente sulla vita delle persone» senza alcuna «legittimazione politica diretta né un meccanismo di controllo democratico».

Copertina de L'ingranaggio del potere, libro di Lorenzo Castellani

I tecnocrati, ovvero i tecnici che gestiscono un potere, sono ovunque, «nella burocrazia nazionale, nelle strutture sovranazionali, negli enti internazionali, nelle authority, nelle commissioni, nei tribunali e nelle banche centrali». Una situazione inevitabile, spiega il politologo a Tempi: «La globalizzazione dell’economia ha portato con sé lo sviluppo di burocrazie come l’Unione Europea. La caduta delle ideologie, la crisi dei partiti e una politica sempre più remissiva hanno fatto il resto: i governanti hanno deciso di puntare sulla globalizzazione affidando ad altri responsabilità che loro non potevano più assumersi. I burocrati erano le figure perfette: competenti nel loro campo, avrebbero saputo affrontare le crisi e sarebbero rimasti quelli a cui dare la colpa se le cose non fossero andate bene. E ai tecnici questa situazione non dispiaceva, non dovendo rendere conto agli elettori».

Il culto del modello matematico

In un mondo sempre più complesso l’idea di chiedere ai competenti un indirizzo su argomenti che loro conoscono bene non è sbagliato, anzi. Il problema è quando la parola del competente diventa regola, legge, dogma. Dall’inizio della pandemia abbiamo ascoltato decine di esperti contraddirsi tra loro sulla gestione dell’emergenza, molte previsioni sono state sbagliate e la politica ha sbandato. La competenza al potere funziona in astratto, dice Castellani, «poi ci si scontra con la realtà. Non si può prevedere tutto, la scienza va avanti per fallimenti». È il paradosso della pretesa tecnocratica: «Più si va nel particolare più si troverà qualche esperto più esperto degli altri». Siamo in pieno neopositivismo: «Tutto è scienza in senso tecnico, dalla sociologia all’economia, viviamo nell’idea che un modello matematico ci indicherà la via migliore se assumeremo certi comportamenti e perseguiremo certe politiche». Eppure «più i competenti falliscono più vogliamo competenza. La politica non si assume la responsabilità delle sue decisioni, soprattutto se c’è di mezzo la morte per una malattia, divenuta inaccettabile. La possibilità che il competente fallisca non è presa in considerazione, gli esperti vengono imbarcati nelle istituzioni anche se sbagliano. Tutto ciò è figlio di un riflesso psicologico-culturale preciso: poiché Dio è morto, la scienza lo ha sostituito». Con la conseguenza perversa di un mondo diviso «tra chi ha fede cieca negli esperti e chi grida al complotto». 

Lorenzo Castellani
Lorenzo Castellani

L’impressione è che i competenti vivano in una bolla – gonfiata dai social network – «isolandosi dal mondo reale e dall’accettazione dell’incertezza», aumentando quella segregazione culturale delle élite già denunciata da T. S. Eliot. «Da sessant’anni viviamo in una società che ha visto una crescita costante del sistema d’istruzione. Se investo duecentomila euro per studiare in un’università d’eccellenza, e vivo in un sistema in cui il mio voto vale come quello di un muratore, io, che mi sento un iperspecializzato, tollererò sempre di meno questa uguaglianza, soprattutto se i non competenti vincono le elezioni: non sono come me, non hanno studiato quello che ho studiato io, non posso prevedere cosa faranno, non li controllo. Quindi disprezzo chi li ha votati. Il cosmopolita non sopporta la democrazia». 

La chiave della cultura (progressista)

Massa, organizzazione e istruzione sono i tre strati su cui poggia la tecnodemocrazia. Dopo l’uomo-massa teorizzato a inizio Novecento, la democrazia ha iniziato a trasformarsi profondamente con lo sviluppo della burocrazia e l’arrivo dell’uomo-organizzazione, «che dipanava la propria azione nei grandi apparati amministrativi pubblici e privati», e infine con «l’uomo-istruzione, protagonista della nuova società della conoscenza in cui la formazione diviene fondamentale per le dinamiche economiche e politiche». È il trionfo delle università, fabbriche dei nuovi esperti, «certificatori della competenza attraverso un sistema omogeneo e standardizzato. Un percorso fondamentale per l’istituzionalizzazione della conoscenza specialistica come vettore sia per l’ascesa al potere pubblico dei competenti sia come risposta alla sofisticazione del mercato».

Oggi la differenza di classe non è più tra poveri e ricchi, tra sfruttati e padroni, ma tra competenti e incompetenti, istruiti e non, esperti e cialtroni. «Gruppi e corporazioni che gestiscono il potere nascono attorno a questa differenza, studi e lavori fatti insieme diventano legami forti, fino al paradosso che un ricco imprenditore veneto ha molte meno cose in comune con l’establishment rispetto a un giornalista di un grande quotidiano». 

Tra i tecnocrati vanno forte le idee di sinistra. «Il concetto gramsciano di egemonia culturale era ben radicato in tutta Europa», dice Castellani. «Con il Sessantotto il pensiero progressista arriva a “controllare” le università. Poi la globalizzazione, elogiata dai conservatori, spiazza la sinistra. I progressisti capiscono però subito che a questo sistema non si può opporre resistenza, è un fatto compiuto. Va accettata l’integrazione dei mercati e costruita l’Unione Europea. La sinistra diventa blairiana, abbandona la lotta di classe. Le università formano tecnocrati dello Stato e del mercato con una cultura progressista che, per paradosso, è la reazione a un mondo sciolto di tutti i legami, senza identità. L’identità viene allora costruita attorno ai diritti. Qualsiasi diritto». 

Conferenza stampa di Silvio Brusaferro sui numeri della pandemia di coronavirus

La reazione nazional-populista

È una reazione speculare a quella delle province dei paesi occidentali che, sentendosi abbandonate da questo establishment, si comportano in modo imprevedibile: votano la Brexit ed eleggono Trump. «Trump è sfuggito di mano», commenta il docente della Luiss. «Anche tra i conservatori si pensava che la visione del mondo mainstream fosse ormai dominante, lui ha ribaltato tutto. Lo stesso è accaduto con il voto sulla Brexit: Boris Johnson ha saputo intercettare un desiderio dell’inglese medio che l’establishment non poteva capire, perché non capisce che la società si trasforma sì in continuazione, ma non corre sempre verso il progresso. La questione nazional-populista è una domanda di frenata a un mondo che corre: non a caso l’elemento che unisce questi elettori in ogni parte del mondo è la nostalgia».

Citata più volte nel corso della nostra conversazione, l’Unione Europea è la grande struttura tecnocratica da cui dipendono sempre di più le sorti dei paesi membri. «Un’Unione incompleta», dice Castellani, «senza una Costituzione e costruita sulla burocrazia, senza legami con i territori. Le istituzioni europee sono “colonizzate” dai paesi più forti dell’Unione, chi comanda in Europa sono gli stati più importanti e i burocrati formati in certe università». Al di là dei suoi molti meriti storici, l’Europa è un buon esempio di tecnocrazia invadente. «Per citare Giovanni Orsina, esercita un potere pedagogico-ortopedico sugli Stati membri: perché un’Unione nata sul carbone e su accordi economici deve decidere a che età vanno in pensione i giudici ungheresi?». La sostanza è che «Francia e Germania hanno l’idea di raddrizzare chi deraglia, l’élite competente che governa l’Unione rigetta qualsiasi idea di autogoverno. Si parla di “interdipendenza”, viene abolito il termine “nazione”, ma l’Europa ragiona in maniera burocratica imperiale, centralizzando tutto e senza espandere alcun impero». Altro che paradiso liberale. 

La resilienza delle élite

Non tutti i tecnocrati promettono male, però. Si invoca, comprensibilmente, un governo guidato da Mario Draghi in Italia. «Draghi esercita un potere legittimato dalla sua competenza. Perché lo si invoca? Perché conosce la politica monetaria, e per il carisma che sprigiona dal suo essere un tecnocrate: dà l’idea di essere una persona decisa, con le idee chiare, uno che può indicare una via per uscire dalla crisi». Che poi Draghi riesca a far funzionare il paese «è tutto da vedere: pensiamo a Mario Monti, la cui agenda si è infranta sulla realtà. Alla fine, sempre politica bisogna fare». 

Mario Draghi e Mario Monti

A fare da cornice a tutto questo ci sono i media. «La rivoluzione dei manager ha toccato anche i giornali», nota Castellani. «Il sistema della competenza produce una classe dirigente diversificata per funzioni, giornalismo compreso, che è sempre più organizzata per network: il giornalista parla a chi conosce, ma così facendo si autosegrega, si omologa». 

Ma le élite non erano morte? «Sono molto coese, il sistema è resiliente, come piace dire a loro, regge a qualunque scossone. L’80 per cento dei media la pensa allo stesso modo, il capitalismo è diventato politicamente corretto, e quando qualcosa sfugge al controllo la burocrazia arriva in soccorso. C’è omogeneità di pensiero in tutti i campi, al massimo si tollera l’eccentrico. Sia chiaro, arriviamo da quarant’anni di grande sviluppo grazie a questo sistema, la popolazione sta bene, difficile che ci siano rivoluzioni».

L’approccio di Castellani al tema della tecnocrazia nel suo saggio è storico e analitico, sebbene critico in molti passaggi. Non è un inno al sovranismo, ma un’analisi lucida di un paradosso, quello «dell’ingranaggio del potere, che più si espande e diviene sofisticato e più s’indebolisce nella legittimazione, cioè nella fiducia e nell’obbedienza degli individui». 

Se il sistema non si può abbattere (né avrebbe senso farlo), un antidoto all’eccesso di tecnocrazia c’è. «Anche chi vuole il discioglimento di ogni legame alla fine cerca un’identità, e io credo che le identità più forti non siano quelle verticali, tematiche, ma quella territoriale: d’altra parte nel corso della sua vita l’essere umano ha conoscenze limitate e si muove in un ambiente limitato. Perché non ripensare il sistema verso il basso?». 

Cara vecchia sussidiarietà

Secondo il filosofo e matematico Nicholas Nassim Taleb, la modernità ci ha inculcato «l’idea che esistano solo due entità: l’individuo e la collettività universale. In questo senso, quando ti metti in gioco lo fai solo per te, per l’entità elementare. La realtà, però, è che ciascuno di noi si mette in gioco come parte di un gruppo più ampio: una famiglia, una comunità, una tribù, una confraternita. Più ampio, ma assolutamente non universale». La società civile «matura nelle città, nei quartieri», conclude Castellani. «Se a livello nazionale e sovranazionale ormai i giochi sono fatti, è ancora possibile ridare importanza alla dimensione locale». La cara vecchia sussidiarietà. «Il potere politico è sempre più concentrato, centralizzato, delocalizzato, incontrollabile e irresponsabile», per questo occorre decentralizzare, riportare la responsabilità delle decisioni politiche più vicino ai cittadini, «andare verso un sistema di autogoverno a livello di comunità». E non avere paura del conflitto: la politica serve a far convivere in modo civile idee, modi di vita e preferenze diverse. L’illusione tecnocratica di trovare una soluzione che neutralizzi ogni conflitto porta all’annullamento della politica. E «dietro ogni tentativo di annullare la politica come processo di discussione si nasconde un pericolo dispotico».

@pierovietti

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