
Indenni fuori, sconfitti dentro. I danni dei lockdown sulle menti dei giovani

Il coro si fa sempre più forte in tutto il mondo, e fra gli psichiatri e altri esperti della salute mentale è pressoché unanime: riaprite le scuole, non decretate un terzo “lockdown”, altrimenti il costo in termini di vite umane rovinate rischia di essere superiore a quello che comporterebbe lasciar circolare il coronavirus. Anche alcuni epidemiologi concordano. Il francese Martin Blachier, regolarmente invitato nei talk-show televisivi sul Covid, ha recentemente dichiarato a Le Matin Dimanche: «Abbiamo cercato di calcolare quale sarebbe stato l’impatto in caso di un terzo lockdown per capire vantaggi e costi, specie in termini di salute mentale. I nostri modelli hanno dimostrato che l’impatto di un terzo blocco sulla salute mentale sarà di molto superiore a quello del Covid». Blachier si riferisce ai modelli prodotti da Public Health Expertise, la società parigina specializzata in biostatistica ed economia sanitaria per la quale lavora.
Gli fanno eco gli psichiatri dei servizi di salute mentale svizzeri. La clinica di psichiatria infantile e dell’adolescenza dell’Università di Berna ha registrato un aumento del 50 per cento degli accessi al pronto soccorso. «Siamo pieni e non possiamo più accettare nuovi pazienti, il filtro all’ingresso è in funzione da mesi», dichiara il direttore Michael Kaess a SonntagsBlick.
Stessa situazione a Zurigo e a Basilea. Nella clinica di psichiatria e psicoterapia infantile e dell’adolescenza dell’Università di Zurigo, le emergenze sono aumentate del 40 per cento negli ultimi dodici mesi: mille bambini e ragazzi hanno avuto bisogno di cure immediate. «Stiamo raggiungendo i nostri limiti e quindi abbiamo dovuto trasferire sempre più giovani in reparti per adulti», dichiara la direttrice Susanne Walitza.
All’Università di Basilea il professor Dominique de Quervain, membro della task force anti-Covid, ha pubblicato poco prima di Natale un lungo studio chiamato Swiss Corona Stress Study. Basato su poco più di 11 mila casi, rivela che «la percentuale di persone con sintomi depressivi gravi era del 3 per cento prima del blocco. Si attestava al 9 per cento ad aprile, dopo la prima ondata, per raggiungere il 18 per cento a novembre. Il fenomeno è più marcato tra i giovani. Secondo lo studio il 29 per cento dei 14-24enni e il 21 per cento dei 25-34enni riferiscono di gravi sintomi depressivi. Al contrario tra gli ultra65enni, il gruppo di popolazione presso il quale il rischio di morire per le conseguenze del virus è maggiore, solo il 6 per cento mostra sintomi di depressione».
Dall’altra parte dell’oceano, le autorità americane non hanno ancora pubblicato dati sui suicidi giovanili nel 2020, ma numerosi indicatori suggeriscono un impatto fortemente negativo dei confinamenti sui minorenni. Gli accessi ai pronto soccorsi psichiatrici degli ospedali pediatrici americani sono aumentati del 24 per cento fra i bambini di 5-11 anni e del 31 per cento fra gli adolescenti di 12-17 anni. I Cdc, Centri per il controllo delle malattie, organismi che gestiscono le crisi sanitarie negli Stati Uniti, hanno concluso in uno studio pubblicato alla fine dell’anno scorso che un giovane americano su quattro aveva avuto pensieri suicidi durante la pandemia. Tema molto sensibile, perché nel paese il suicidio è la seconda causa di morte fra i 14-18enni. È anche per questo motivo che Joe Biden aveva promesso di riaprire tutte le scuole nei primi 100 giorni del suo mandato, salvo rendersi conto dopo qualche settimana che non era in grado di mantenere la promessa.
Numerose città americane hanno deciso di agire senza attendere il presidente o il Congresso. Dopo il suicidio di 19 minorenni dall’inizio della pandemia, Las Vegas ha deciso di riaprire parzialmente le sue scuole ai primi di marzo. Chicago e New York hanno annunciato misure simili. Il municipio di San Francisco ha sporto denuncia contro il locale distretto scolastico per costringerlo a riaprire le scuole. «Capisco che è una misura drastica», si è giustificato il sindaco London Breed, «ma ho l’impressione che a questo punto non abbiamo altre opzioni. Non posso restare senza fare nulla mentre vedo genitori e studenti soffrire».
Foto di Solen Feyissa per Unsplash
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