Gli scozzesi tornano alla carica per un nuovo referendum di indipendenza da Londra, e si profila il rischio di uno scenario alla catalana. Martedì 14 giugno Nicola Sturgeon, primo ministro di Scozia riconfermata per la seconda volta nelle elezioni del maggio 2021, ha presentato al pubblico il primo libretto di una serie denominata “Building a new Scotland” prodotta dal governo di Glasgow, concepita per dimostrare quanto l’indipendenza migliorerebbe le condizioni degli scozzesi e permetterebbe loro di svolgere un ruolo positivo nel contesto internazionale.
Il testo si intitola: “Indipendenza nel mondo moderno. Più ricchi, più felici, più giusti: perché non la Scozia?”, e paragona gli indici sociali e macroeconomici della Scozia a quelli di dieci paesi europei ad essa comparabili per numero di abitanti o per condizione insulare (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Islanda, Norvegia, Olanda, Svezia e Svizzera) per concludere che se avesse l’indipendenza, anche la Scozia potrebbe aspirare agli alti indici di sviluppo di quei paesi, mentre l’appartenenza al Regno Unito le ha tarpato le ali.
Le parole di Sturgeon
Alla presentazione la Sturgeon ha affermato: «Nella loro vita quotidiana, le persone in tutta la Scozia stanno subendo l’impatto dell’aumento del costo della vita, della bassa crescita e della crescente disuguaglianza, delle finanze pubbliche limitate e delle molte implicazioni di una Brexit per la quale non abbiamo votato. Questi problemi sono stati tutti aggravati o, più ovviamente nel caso della Brexit, direttamente causati dal fatto che non siamo indipendenti. Quindi in questo momento critico ci troviamo di fronte a una domanda fondamentale. Rimaniamo legati a un modello economico del Regno Unito che ci consegna a risultati economici e sociali relativamente scarsi e che rischiano di peggiorare, non di migliorare, stando fuori della Ue? Oppure alziamo gli occhi, con speranza e ottimismo, e prendiamo ispirazione dai paesi europei comparabili al nostro?».
Londra nei guai per la Brexit
Nelle dichiarazioni alla Bbc era stata ancora più dura: «Nessuno, in questo momento, può guardare al Regno Unito e ai pasticci in cui si trova attualmente e alle sue prospettive fuori dall’Unione Europea, e non concludere che la Scozia può soltanto fare meglio come paese indipendente. In effetti, se nel 2014 si fosse saputo tutto ciò che sappiamo oggi sul percorso che il Regno Unito avrebbe intrapreso da allora ad oggi, non ho dubbi che la Scozia avrebbe votato a favore del “sì” all’indipendenza già allora».
Qui la Sturgeon si riferisce al referendum del 2014 tenuto col permesso del governo britannico, che si concluse con la vittoria per 55 a 45 per cento dei “no” all’indipendenza scozzese. Ma si riferisce anche ai grossi guai di Londra con l’Unione Europea, dopo che questa ha annunciato che farà causa in sede legale contro la Gran Bretagna per violazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord, che Londra ha prima concordato con Bruxelles e poi disatteso. E si riferisce alle poco brillanti prospettive economiche britanniche secondo le proiezioni dell’Ocse di settimana scorsa, in base alle quali fra i paesi del G20 il Regno Unito sarebbe nel 2023 quello con la crescita più bassa (0 per cento), fatta eccezione per il Pil della Russia.
I problemi delle aziende
Più di un analista attribuisce le cattive prospettive economiche alle conseguenze della Brexit, che comincerebbero a farsi sentire.
Scrive per esempio il Times, riportando le convinzioni dell’economista Simon French: «Il ritiro dall’Ue ha reso il commercio con l’Europa più difficile e ha esacerbato la mancanza di personale qualificato, ma sono gli investimenti imprenditoriali ad avere avuto probabilmente l’effetto negativo più importante sulla mancata crescita del Pil. Le aziende si sono dimostrate riluttanti a spendere in espansione a causa di tutta l’incertezza associata all’uscita dall’area commerciale integrata della Ue, incertezza che continua a causa della rinnovata controversia sul Protocollo sull’Irlanda del Nord».
Secondo French è assolutamente chiaro «che gli investimenti imprenditoriali in impianti, macchinari e altri esborsi di capitale sono stati intaccati dalla Brexit, per una flessione pari a quasi 60 miliardi di sterline all’anno secondo le sue stime».
Repliche ostili
L’offensiva della Sturgeon per un nuovo referendum di autodeterminazione, che a suo parere dovrebbe tenersi nell’autunno del 2023, ha già provocato repliche ostili. «Con la Scozia schiacciata dal peso delle liste d’attesa interminabili nella sanità, i partiti di opposizione nel parlamento scozzese hanno fustigato come “vergognosa” la decisione della signora Sturgeon di dirottare milioni di sterline e ore di lavoro di alti dirigenti per per rilanciare la sua campagna per l’indipendenza», scrive il Daily Telegraph.
La critica più sostanziale che viene mossa al primo ministro scozzese è che una Scozia indipendente e membro dell’Unione Europea, come lei la vorrebbe, si troverebbe ad avere un confine rigido, gravato da tariffe e tasse doganali, col paese col quale attualmente ha più scambi economici: l’Inghilterra; il valore degli scambi commerciali fra la Scozia e il resto del Regno Unito attualmente è il triplo di quello degli scambi della Scozia con tutti i paesi dell’Unione Europea.
Questioni irrisolte
La Sturgeon si dice consapevole del problema e convinta di poterlo affrontare meglio di come Boris Johnson sta facendo col Protocollo per l’Irlanda del Nord, ma il deputato conservatore del parlamento scozzese Dean Lockhardt l’ha fulminata: «Questa è una dimostrazione di analfabetismo economico da parte di un primo ministro che ha fatto comunella con coloro che non credono nella crescita economica (il riferimento è ai Verdi scozzesi, che insieme all’Snp, il Partito nazionale scozzese della Sturgeon, governano la Scozia – ndt). L’Snp non riesce nemmeno ad essere onesto col popolo scozzese. In nessun universo parallelo la creazione di una frontiera col tuo principale partner commerciale arreca benefici superiori alle perdite ». Allo stesso proposito il Partito laburista scozzese commenta che l’indipendenza scozzese «farebbe sembrare la Brexit una passeggiata nel parco».
Il Daily Mail fa notare che il pamphlet presentato dalla Sturgeon «non tratta questioni centrali come la valuta che sarà usata in Scozia, le sue condizioni finanziarie alla luce del suo vasto deficit di bilancio, la questione pensioni, la politica della difesa e i piani per entrare a far parte della Ue. La signora Sturgeon ha alluso al fatto che i prossimi libretti si occuperanno di questi argomenti».
Un referendum infattibile
Ma l’obiezione più importante non riguarda i contenuti del progetto indipendentista, quanto la sua fattibilità: i critici fanno notare che l’attuale governo britannico non intende in nessun modo autorizzare un nuovo referendum indipendentista, e che la legislazione attuale non permette al parlamento e al governo scozzesi di procedere da soli nell’indizione di un referendum di questa importanza. Quello del 2014 fu organizzato sulla base dell’articolo 30 dello Scotland Act, che prevedeva la possibilità per il parlamento scozzese di legiferare su materie riservate al governo centrale, nel caso che quest’ultimo delegasse temporaneamente una materia di sua competenza al parlamento devoluto con un “ordine”.
Come pensa stavolta di procedere la Sturgeon? Le sue dichiarazioni in materia sono decisamente anodine. «Sono stata rieletta come primo ministro con un chiaro mandato a dare al popolo scozzese la scelta per diventare un paese indipendente. E gli elettori hanno eletto un parlamento scozzese che ha una decisiva maggioranza favorevole all’indipendenza e al diritto di sceglierla. (…) Tuttavia un referendum, se vuole essere risolutivo, deve essere rispettoso della legge. A trarre beneficio da dubbi relativi alla legalità di un referendum sarebbero i partiti avversari dell’indipendenza. (…) Questo significa – se vogliamo rispettare la democrazia qui in Scozia – che dobbiamo individuare un modo per andare avanti, se necessario facendo a meno di un provvedimento basato sull’articolo 30 dello Scotland Act. Per le ragioni che ho spiegato, tuttavia, dobbiamo farlo in un modo legalmente inoppugnabile. Sappiamo che in queste circostanze la competenza legislativa del Parlamento scozzese è contestata. Questa è la situazione che dobbiamo affrontare per dare alle persone la scelta dell’indipendenza. Il lavoro è in corso, e anche se non intendo entrare nei dettagli oggi, posso dire che spero di fornire al parlamento un aggiornamento significativo molto presto».
50 a 50
Il rischio di una soluzione pasticciata, che potrebbe condurre a una crisi di tipo catalano, sembra dietro l’angolo. Ma cosa succederebbe se si votasse nei prossimi mesi? Secondo l’istituto di sondaggi Diffley Partnership il “sì” e il “no” all’indipendenza viaggiano spalla a spalla, con un leggerissimo vantaggio del secondo.
«Il sondaggio più recente indica il Sì e il No appaiati al 50 per cento», spiega Mark Diffley. «Nella media di quest’anno il No è leggermente più avanti del Sì, ma nel mondo dei sondaggi statisticamente è un pari merito. Ciò significa che se ci fosse una campagna referendaria, non sarebbe affatto una formalità, e nessuna delle due parti scenderebbe in campo con la certezza di vincere».
«L’unica differenza col passato», sottolinea, «è che stavolta la percentuale degli indecisi è molto più bassa: sarebbero solo l’8 per cento, mentre nel 2014 erano il 15-20 per cento».
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