Scomoda per davvero

Di Rodolfo Casadei
01 Novembre 2007
La scelta folle di Maggy Barankitse, proprietaria terriera che si è fatta mamma per diecimila bambini, hutu e tutsi. Proprio nel Burundi sconvolto dagli scontri etnici

Il premio Nobel per la pace avrebbero dovuto darlo a lei, non a quel tizio che attraversa l’oceano con un jet privato con due passeggeri a bordo, scende, fa una predica ecologista sul risparmio energetico in un salone affollato, risale sul jet e riattraversa il mare. Alla folle di Ruyigi, alla madre di 10 mila figli che fra il 1993 e oggi si è fatta carico degli orfani del Burundi devastato dall’odio fratricida fra hutu e tutsi. La sua Maison Shalom ha accolto in affido 3 mila bambini, 4.200 sono stati reinseriti nelle famiglie allargate di origine, 2 mila bambini e ragazzi vivono nelle 480 case famiglia che lei ha fondato in tre regioni del suo paese. Il tutto partendo da zero, contando soltanto sulla Provvidenza (incarnata da decine di volti di europei e di africani) e attraversando a testa alta tredici anni di ingiurie, dispetti e minacce di morte. Perché non esiste che una come Marguerite Barankitse, proprietaria terriera tutsi, accolga indifferentemente sotto la sua ala materna orfani degli hutu massacrati dalle milizie tutsi e orfani dei tutsi assassinati dai guerriglieri hutu. Non esiste che punti il dito in tribunale e alla Messa domenicale contro la gente della sua stessa etnia che si è macchiata le mani di sangue e va in giro a piede libero senza nemmeno aver chiesto scusa. Non esiste che insegni ai suoi bambini e ragazzi a perdonare agli assassini dei loro genitori e a non vergognarsi se i loro genitori hanno commesso orribili delitti, che non devono ricadere su di loro.
Marguerite ha costruito tutto sulla sola forza della fede: la fede che sposta le montagne, moltiplica i pani e il latte in polvere, ferma le pallottole dentro ai fucili. «La fede è la condizione sine qua non del mio impegno», sorride alla domanda sull’argomento. «Questa non è la mia opera, è l’opera di Dio. Abbiamo chiamato il centro Shalom perché tutti sappiano che presso di noi c’è la pace di Dio, non quella degli uomini. È Dio che mi spinge, io sono solo la sua serva. Perciò la cosa continuerà anche dopo di me, anche se sarò uccisa. Se non avessi avuto la fede, mi sarei suicidata all’inizio».
Già, l’inizio. Doveva essere una fine, nella testa malvagia di chi organizzò un linciaggio di hutu a Ruyigi il 26 ottobre 1993. Pochi giorni prima era stato assassinato Melchior Ndadaye, il primo presidente hutu del paese. Gli hutu si erano vendicati assalendo i tutsi ovunque potevano. I tutsi si erano organizzati per le controrappresaglie. Il 26 ottobre Marguerite va in vescovado, dove lavorava come segretaria dell’ufficio per i progetti di sviluppo sociale, e quando si rende conto che è iniziato un linciaggio fa entrare nei locali alcune decine di persone. Arrivano gli assalitori e le domandano di rivelare i nascondigli dei fuggitivi e consegnare le chiavi dei locali. Marguerite si rifiuta. Allora sfondano le porte e catturano quanti più hutu possono, dentro il vescovado e in giro per la cittadina. Denudano Marguerite, la legano a una seggiola e uccidono di fronte a lei 72 persone, incluse donne e bambini. Alcuni le porgono l’ultimo saluto mentre vengono decapitati a colpi di machete, altri le affidano i loro figli. A un certo punto gli assassini le mettono in grembo la testa mozzata di una sua giovane amica. Un’altra sarebbe impazzita. Marguerite invece riesce a convincere uno degli assalitori a liberarla, riunisce 25 bambini e ragazzi nascosti in giro per la cittadina e li porta in salvo alla casa di Martin, un cooperante tedesco che collaborava col vescovado.
Resterà in quella casa anche quando il volontario sarà evacuato dalle autorità del suo paese, per sette mesi quello sarà il primo nucleo della Maison Shalom. «Quando Martin è partito, io ho sentito che non dovevo rimanere soltanto per quei 25 bambini, ma per tutti i bambini e tutte le mamme in pericolo. Mi ero sempre sentita chiamata a una missione, ma non sapevo quale. Fino a quel momento avevo sempre avuto paura di non farcela, di essere infedele. All’improvviso ho visto come un segno. Prima ero io, Maggy, che aiutavo alcuni bambini; ma nel 1993, davanti a quel massacro, ho sentito una specie di chiamata a lasciare tutto e a contare sull’onnipotenza di Dio. Ero trascinata da quella forza, per due giorni non ho mangiato ma non sentivo fame. Ero così impotente, eppure l’amore di Dio mi rendeva forte».
Poi, dopo qualche mese, arrivano il tracollo dello stress post-traumatico e la notte dell’anima: «Ogni volta che cercavo di parlare, soffocavo. Non potevo più gridare né parlare. Il mio corpo di donna mi disgustava. Vedevo nel mio corpo tutte le donne violentate. Avevo incubi orrendi. Ero furiosa con Dio che aveva permesso quella violenza. Mi sono ritirata in convento. Lì, a poco a poco, ho accettato di non riuscire a comprendere la parte mostruosa e distruttrice dell’essere umano. Ho ritrovato il gusto per la vita. Allora ho capito che tutto è opera di Lui. A poco a poco ho percepito di nuovo la Sua vicinanza, ho ricominciato a compiere le migliaia di gesti quotidiani della mamma, per tutti i bambini che potevo».

Perdono, ma non senza giustizia
In realtà per assegnare il Nobel per la pace a Maggy basterebbe una sola storia delle 10 mila in cui è coinvolta. Quella di Justine, che aveva 10 anni quando i suoi genitori e una sorellina furono trucidati dai vicini di casa tutsi. Coi fratellini sopravvissuti si è rifugiata alla Maison Shalom. È andata a studiare nello stesso liceo dei figli dell’assassino dei suoi genitori. Li ha invitati, d’accordo con Maggie, alla prima comunione di un fratellino. Ha cominciato a frequentarli. Maggy ha ottenuto che alcuni responsabili dei crimini partecipassero alla ricostruzione della casa di Justine e dei suoi fratelli. Il giorno dell’inaugurazione sono invitati tutti i vicini. C’è anche lui, l’assassino. Justine si rivolge a lui e dice: «Un giorno quest’uomo è venuto verso di me e mi ha chiesto perdono. Solo dopo mi sono sentita finalmente libera. Adesso potrò tornare a vivere. Non potrò mai dimenticare che i miei genitori e 70 persone sono stati uccisi. Non è facile perdonare, ma in Burundi dobbiamo cominciare a perdonarci a vicenda, altrimenti non sapremo mai cos’è la pace». Poi dice a Marguerite: «I tuoi sogni sono diventati realtà. Da te abbiamo imparato a rispettare e a perdonare coloro che hanno ucciso i nostri genitori, saccheggiato i nostri beni, violato i nostri diritti, ferito fisicamente e moralmente».
Marguerite educa al perdono e alla riconciliazione, ma non senza giustizia: è stata la prima tutsi del Burundi a deporre in tribunale accusando persone della sua etnia di aver partecipato ai massacri. In chiesa è capace di prendere a male parole chi partecipa alla Messa senza mostrare pentimento. Una santa, un gigante africano.

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