«Sala vuole una sanità lombarda modello sovietico»
Ha destato molta curiosità l’intervista al sindaco di Milano Beppe Sala pubblicata da Repubblica lunedì scorso 23 novembre. Tutte le domande e le risposte riguardavano temi della sanità, materia sulla quale i sindaci hanno pochissime competenze, e che è invece la principale voce del bilancio delle Regioni (l’85 per cento circa dei soldi gestiti dalle Regioni riguarda la spesa sanitaria). In cerca di chiarimenti sui motivi che possono avere indotto il sindaco di Milano (e il Repubblica) a intervenire in questo modo e sui contenuti specifici dell’intervista ci siamo rivolti a Roberto Formigoni, presidente di Regione Lombardia fra il 1995 e il 2013.
Formigoni, lei sa se ci saranno elezioni regionali anticipate? Chi ha letto l’intervista di Beppe Sala si è fatto l’idea che voglia candidarsi.
Non mi risulta nulla. Può darsi che Sala abbia capacità divinatorie, o che abbia un legame con poteri che possono determinare ciò. La sua intervista a Repubblica appare senz’altro come la mossa di uno che vuole candidarsi alla presidenza di Regione Lombardia, ma dovrà aspettare, come tutti, il 2023. Solo le dimissioni di Attilio Fontana porterebbero ad elezioni anticipate, e non c’è nessuna ragione perché Fontana si dimetta: la Lombardia non ha reagito alla pandemia da Covid peggio delle altre regioni e degli altri paesi del mondo, pur essendo stata colpita in pieno. L’obiettivo dell’intervista a Sala resta misterioso.
Cosa non va nella sua proposta di riforma della sanità? Serve davvero un’Agenzia per il governo della Sanità che coordini il sistema, governi l’offerta del privato accreditato, gestisca gli acquisti sanitari e i concorsi per il reclutamento del personale?
Non solo non serve, ma la trovo pericolosa e dannosa. Rappresenterebbe l’esaltazione di un centralismo che ignora che la Lombardia presenta una varietà di territori senza uguali in Italia; questi non hanno bisogno di essere governati da un centro che imporrebbe la sua volontà a tutti, ma di un sistema policentrico di controlli e di propulsione calcato sulle esigenze dei vari territori. Quello di Sala è un modello “sovietico” centrato sull’egemonia di Milano. Massimo rispetto per i milanesi, ma la Lombardia è una regione di 10 milioni di abitanti, e bisogna rispettare anche chi abita a Bergamo, Brescia, Lecco, ecc., nelle campagne, in montagna, ecc. Noi dal ‘97 abbiamo individuato come ambito ideale per il coordinamento quello provinciale, e io non ho cambiato idea. Un’agenzia centralizzata comprometterebbe il rapporto col territorio garantito dalle province e pure quello coi Comuni, che pure Sala invoca in un’altra parte dell’intervista.
Per quanto riguarda la componente del privato accreditato della sanità, Sala propone «un sistema di rimborsi che non si basi solo sulla fatturazione della singola prestazione, ma che tenga conto del risultato dell’intero percorso di cura. Cioè, per esempio, l’80 per cento del rimborso è sulla prestazione effettuata dall’ospedale privato convenzionato, ma il restante 20 per cento viene liquidato alla dimostrazione del risultato della cura». Questo potrebbe davvero prevenire spesa sanitaria inappropriata?
Mi chiedo se Sala conosca le leggi dello Stato italiano: la remunerazione dei privati è fissata a livello nazionale, ed è omogenea a quella per le prestazioni degli ospedali pubblici attraverso i cosiddetti Drg, cioè le tariffe per tipologia di ricovero ospedaliero. Non è permesso a una Regione derogare alla legge nazionale. D’altra parte è un sistema adottato in tutta Europa e negli Stati Uniti. Che vuol fare, Sala, tirarsi fuori dal novero dei paesi industrializzati? Il problema del controllo della qualità delle prestazioni è un problema che noi ci siamo posti sia per quanto riguarda gli ospedali pubblici, sia per quanto riguarda gli ospedali privati. Stabilimmo più di cento parametri che servivano a monitorare gli standard di qualità delle strutture e delle prestazioni che le strutture erogavano. Ovviamente la qualità costa: facemmo molti investimenti nelle strutture pubbliche e chiedemmo uno sforzo analogo alle strutture private, stabilendo una remunerazione premiale per chi avesse soddisfatto questi nostri standard di qualità più elevati. Ciò avvenne attraverso le cosiddette funzioni non tariffabili, che tanti ingiusti guai hanno portato alla mia persona, ma che non rinnego nemmeno per un secondo: è stata una novità introdotta dalla Lombardia, ma presto fatta propria da molte altre Regioni.
È opinione diffusa che le difficoltà nell’affrontare la pandemia da Covid derivino da un deficit di medicina del territorio. Come dovrebbe essere “un progetto sociosanitario sui territori”? Bisogna dismettere le Ats maroniane e restaurare i Distretti, quelli che Sala definisce “realtà dove servizi sanitari e sociali si incontrano”?
È vero, in Italia non c’è un’adeguata medicina del territorio nella quasi totalità delle Regioni, Lombardia compresa. Ai miei tempi c’era, per noi era chiaro che l’eccellenza ospedaliera doveva abbinarsi all’eccellenza della medicina del territorio. Per questo, fra le altre cose, avevamo incoraggiato le associazioni fra medici perché lavorassero in équipe. Il medico del territorio è il primo che si accorge se qualcosa non va, ma se è isolato non può lanciare l’allarme. A proposito del Covid abbiamo saputo che già a dicembre dello scorso anno alcuni avevano notato forme strane di polmonite. Se fossero esistite le associazioni di medici che noi avevamo previsto, i “medici sentinella”, sarebbero stati rilevati più casi e sarebbe stato lanciato l’allarme alla Regione. Se fosse andato avanti il nostro progetto sperimentale Creg, che l’Università Bocconi giudicò positivamente, la medicina del territorio avrebbe affrontato meglio la pandemia. Prevedeva che i medici generici si facessero carico dei cronici loro assistiti monitorandoli regolarmente, garantendo percorsi facilitati per gli accertamenti periodici e dedicandosi a prevenire le complicanze; volevamo garantire in continuità tutti i servizi extraospedalieri (ambulatoriali, farmaceutici, di ospedalizzazione domiciliare) necessari per una gestione delle malattie croniche lontano dall’ospedale. I primi dati avevano rilevato una diminuzione di accessi ai Pronto Soccorso, perché la gente ne aveva meno bisogno. Sarebbe stata l’autentica punta di lancia della medicina del territorio che tanti hanno scoperto essere stata trascurata all’indomani dello scoppio dell’epidemia. La giunta Maroni abbandonò il progetto ritornando a mettere al centro gli ospedali.
Allora tutte le colpe sono della Giunta Maroni?
Assolutamente no. Ci sono molte responsabilità in capo ai governi nazionali che si sono succeduti dal 2012: mi riferisco ai tagli alla sanità voluti dai governi Monti, Letta e Renzi in nome della “spending review”. Tagli a volte brutali, accompagnati dalla disposizione di ridurre il numero dei letti di specialistica e di terapia intensiva, che fu fissato a livello nazionale. Non è colpa delle Regioni se ci siamo trovati con meno letti di terapia intensiva del necessario, ed è una fortuna che la Lombardia avesse parzialmente disobbedito agli ordini di Roma in questa materia. Roma che è responsabile anche del blocco del turnover dei medici, per cui oggi ci troviamo ad avere a disposizione meno medici di quanto sarebbe necessario, e si fanno inserzioni televisive per reclutare volontari fra i pensionati!
Tornando al sindaco Sala, lui propone un «Consiglio di Indirizzo a livello lombardo, nel quale vengano coinvolti i sindaci delle città capoluogo di provincia, che abbia la responsabilità della definizione delle politiche di sanità territoriale». Non ci sono già momenti istituzionali di confronto fra le province e la Regione a questo riguardo?
I sindaci già oggi hanno un compito: sono competenti per l’assistenza sociale. Per la salute è fondamentale il collegamento fra sanitario, socio-sanitario e sociale, e sulle ultime due componenti i poteri ce li hanno i sindaci. Un governo regionale attento tiene vivo il rapporto con i sindaci attraverso le Aziende sanitarie locali (Asl) che hanno dimensioni provinciali o sub-provinciali per le province più grandi.
Ha detto Silvio Garattini, il fondatore dell’Istituto Mario Negri, al Corriere: «Il mio sogno è una sanità in equilibrio tra medicina ospedaliera e medicina del territorio, con molta più ricerca e prevenzione». Si può fare?
Ha ragione e si deve fare. Ma la realizzazione dipende sia dall’intelligenza dei governi regionali che dalle risorse stanziate dai governi nazionali, perché la ricerca costa.
Garattini ha pure affermato che in Lombardia ha pesato più che altrove lo squilibrio tra ospedali e territorio? Ha detto: «L’ospedalizzazione in eccesso è una distorsione del sistema lombardo. C’è stato un momento in cui la Lombardia aveva più cardiochirurgie dell’intera Francia».
Ha ragione, la riforma Maroni ha squilibrato la sanità a svantaggio della medicina territoriale, ma prima non era così. È vero che nei miei anni ci fu il caso delle cardiochirurgie (tuttavia è sempre meglio averne molte anziché poche, non è vero? Ne istituimmo una a Varese, che non l’aveva) quando aprimmo l’accreditamento nel 1997 si verificò un sovradimensionamento, ma intervenimmo subito e riducemmo il numero.
Anche sui vaccini anti-influenzali in Lombardia Garattini è severo: «Non bastano per tutti i richiedenti. Sui vaccini contro l’influenza la sanità lombarda ha fatto una figuraccia». La vicenda dei vaccini influenzali è una battaglia persa dalla Regione Lombardia o c’è solo un problema di comunicazione?
Mi sembra che sia un problema di tutta l’Italia, anche nelle altre regioni c’è una carenza di vaccini. Per quello che ne so, c’è un problema a monte: le aziende che producono i vaccini e le agenzie che le distribuiscono non stanno adempiendo i contratti. Le lamentele sono comprensibili, ma la responsabilità primaria mi sembra sia in capo alle aziende che hanno firmato un contratto con le Regioni ma non lo rispettano. Mi auguro che tornino a rispettarlo e che paghino le giuste penali.
Foto Ansa
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