La riforma della giustizia? «Acqua fresca»
«È inutile fare analisi se poi non si parla del ruolo del pm quando si fanno le riforme». Parlando di giustizia e gogna mediatica all’incontro organizzato mercoledì da Socialcom Italia a Roma su “Comunicare la giustizia ai tempi dei social: il diritto all’informazione e la gogna mediatica”, l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti ha definito la riforma del Csm e della giustizia targata Marta Cartabia «acqua fresca. La politica aveva la possibilità di riappropriarsi dei suoi spazi con una riforma seria, non lo ha fatto. È vero che la politica è debole e sotto ricatto, ma se non affronta il tema del ruolo del pm parliamo del nulla».
Le colpe dei giornalisti e quelle della politica
Dall’incontro a cui hanno partecipato anche Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera e cronista di giudiziaria ai tempi di Tangentopoli, l’ex magistrato Simonetta Matone, oggi capogruppo della Lega in Comune a Roma, l’ex vicepresidente del Csm e avvocato Michele Vietti e il direttore di Adnkronos Gian Marco Chiocci, emerge un paese bloccato. Parlare di giustizia, gogna mediatica e Mani pulite «con una guerra nel cuore dell’Europa può sembrare straniante, ma non lo è. Anzi serve a capire di più il nostro paese, perché l’Italia è paralizzata dalla questione giudiziaria da trent’anni, è ferma al 1992», dice Buccini.
Chiocci gli chiede se il giornalismo italiano debba fare autocritica su come ha raccontato le inchieste che hanno terremotato il sistema politico italiano e Buccini – che autocritica l’ha fatta nel suo Il tempo delle Mani pulite – dice che sì, i giornalisti sono colpevoli del clima creato allora, ma «noi siamo il dito, non la luna. La luna è la politica, che sì e ritirata e data alla fuga nel 1992, lasciando uno spazio vuoto che è stato occupato dalle procure». Basti pensare che i pm rappresentano un quinto dell’organico della magistratura, ma ne sono diventati la parte più importante, certamente la più rappresentata mediaticamente.
La dannosa alleanza tra giustizia e media
«Ha ragione Violante quando dice che le carriere da separare sono quelle del pm e del giornalista. Ci sono pubblici ministeri che hanno costruito le proprie carriere grazie ai giornali, e noi giornalisti abbiamo smesso di fare il nostro mestiere, facciamo le le inchieste sulle inchieste, a ricasco delle carte che arrivano dalle procure». E qui Buccini sottolinea come spesso siano gli avvocati, «disposti a fare tutto pur di finire in tv e sui giornali, a passare quelle carte». Tornando all’autocritica, Buccini ammette che «non siamo stati capaci di guardare la verità da diversi punti di vista: chi della mia generazione è cresciuto nella sinistra, aveva un pregiudizio culturale sui socialisti. Quando è così, è naturale che se trovi un’inchiesta che conferma questa idea pensi di avere trovato la verità».
Dare la colpa agli avvocati, però, è sviare la questione, ha commentato Vietti: «Il circuito mediatico giudiziario esiste e fa danni enormi, irreparabili. Al di là delle persone offese, e delle vittime, il danno è stato fatto al sistema socio economico del paese, che si è bloccato sulle scelte importanti che comportano responsabilità. Da trent’anni in Italia non si prendono decisioni perché si rischia di finire in quel circuito, e questo genera una paralisi. Così però un paese non funziona: ogni sistema paese è affidato al rischio, il nostro paese è disabituato al rischio».
Questo perché, spiega Vietti, il normale rischio di impresa diventa sistematicamente rischio penale: «Ma così nessuno decide, oppure scappa». È vero che c’è il tema del rapporto di potere, della politica che si è ritirata lasciando un vuoto occupato dalla magistratura, ma stando alla metafora militare «si può dire che i pm sono stati i “ceceni” delle truppe occupanti, e i giornalisti quelli che hanno retto loro il sacco».
Il pm si considera il giustiziere della società
Ma ora c’è una riforma della giustizia in discussione, appunto. La riforma Cartabia, fa notare Vietti, «prevede un solo cambio di funzioni per i magistrati, ma tutti sanno che è una favola. Il problema è che in questo sistema il pm è il padrone delle indagini e del processo. Non c’è parità in dibattimento tra accusa e difesa: il pm ha discrezionalità sulle indagini, il controllo della polizia giudiziaria, e soprattutto il controllo delle intercettazioni. Come può l’avvocato mettersi sullo stesso piano? Oltretutto, il pm fa lo stesso concorso del giudice, è governato dallo stesso organismo, il Csm, ha letteralmente il suo ufficio accanto a quello del giudice. Come può essere davvero terzo nel dibattimento? O si cambia quel ruolo o facciamo chiacchiere».
Simonetta Matone è entrata in magistratura nel 1980, quando «fare il pm era disdicevole, lo facevano gli ultimi in graduatoria. Poi è arriva il ciclone di Mani pulite, e la figura del pm è cambiata, è diventata quella del giustiziere della società. E nonostante le derive pericolose e i fallimenti di Tangentopoli, i ragazzi che facevano il concorso rispondevano di volere fare i pm». L’idea, terribile, è quella che il pm è colui che ripara i torti della società. «Le conseguenze di Mani pulite sono state devastanti sui partiti», ha aggiunto l’ex magistrato. «L’alleanza che ha generato più danni è quella tra procure e stampa: i pm hanno trovato nei giornalisti la sponda perfetta, gli artefici di operazioni di “sputtanamento” che continuano oggi».
I due falsi miti di Mani pulite
C’è un disegno nell’occupazione di questi uffici in nome di un pensiero unico e dominante, ha detto Matone. Un disegno che continua nonostante i flop di tante inchieste. Per questo «la separazione carriere per me non serve a niente: tutto continuerà come prima. Il punto è individuare cosa fa il pm e che poteri ha. Nulla accade senza la complicità di certa stampa». Con una beffa aggiuntiva, ha sottolineato Vietti: l’inutilità mediatica dell’appello, che magari ribalta la sentenza di primo grado: «Quando arriva in appello l’imputato è già morto e distrutto. La giustizia non ripristina gli equilibri: in primo grado c’è lo strapotere del pm che con la stampa distrugge l’imputato».
«Ricordo che all’epoca a noi sembrava normale che Mani pulite raddrizzasse il sistema», ha aggiunto Buccini, ricordando però che Tangentopoli «non è calata dal cielo. Io penso che il mito del golpe giudiziario sia falso: la politica di era già suicidata con il clientelismo, l’aumento sconsiderato del debito pubblico, gli appalti truccati e il finanziamento illecito. La politica era una barzelletta. Il problema è che abbiamo visto che non risolvi l’immoralità di un paese con una inchiesta».
«L’altro mito falso è quello agitato da Antonio Di Pietro, quello della “Mani pulite mutilata”, del “non ci hanno fatto finire il lavoro”. È una fesseria. Di Pietro lascia la magistratura per ragioni ancora oggi non del tutto chiare, e gli italiani, inizialmente schierati con i giudici, iniziano ad avere paura degli arresti. Mani pulite non finisce per una congiura dei poteri che si riorganizzano, ma finisce perché finisce il consenso. Questi due miti – il golpe giudiziario e i poteri che impediscono di finire il lavoro – figliano, e prolificano da una parte nel centrodestra anti-magistratura e dall’altra nel grillismo, che pensa di avere il compito di “finire il lavoro”. Per questo io credo che ci sia una sola via d’uscita per la politica: svitarsi dalla questione giudiziaria, non dipendere dalla giustizia per la propria legittimazione, ma avere idee».
La riforma Cartabia non frenerà i giornalisti
Resta il fatto che i giudici non sono più percepiti dalla gente come i giustizieri della società. «Il troppo stroppia», ha concluso Vietti, «i pm hanno perso credibilità e lo sanno. Ci sono tanti magistrati bravi che fanno il loro lavoro quasi nell’anonimato, e poi c’è una truppa militante che occupa i media. In un momento come questo, in cui avrebbe potuto approfittarne, la politica è però rimasta latitante». Per fortuna ci sono i referendum. «I nodi che non si riescono a sciogliere vanno tagliati, e il referendum è un’accetta» necessaria.
Anche perché, ammette Buccini, «con la riforma Cartabia i giornalisti non vengono frenati. L’abnorme dilatazione della fase comunicativa è inversamente proporzionale all’interesse per il processo. Nel momento in cui si esaurisce l’interesse del pubblico si passa ad altro, del processo vero e proprio non frega a nessuno. Quello che possiamo e dovremmo fare noi giornalisti è ricordare che quando scriviamo scriviamo di una persona che magari ha famiglia, amici, conoscenti, un mondo intorno. Ogni cosa che scriviamo è una pietra».
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