
Se questo è un uomo, un bambino o un peso

Al grido «compassione, non punizione» i parlamentari del Regno Unito hanno votato per depenalizzare l’aborto dopo le 24 settimane. Aborto a domicilio (leggi: pillole abortive), per qualsiasi motivo e in qualsiasi fase della gravidanza. Anche per ragioni non mediche, anche fino al momento del parto. Grazie a un emendamento al disegno di legge su criminalità e polizia, sostenuto da diversi ministri laburisti, gli operatori sanitari continueranno a essere sanzionati se violano le norme vigenti, ma le donne che praticano l’aborto autonomamente no.
Questo il 16 giugno scorso. Il 20 giugno, sempre al grido «compassione», i parlamentari hanno votato per depenalizzare il suicidio assistito per i malati terminali (morte diagnosticata in sei mesi): potranno chiedere e ottenere il farmaco letale per qualunque motivo, senza che nessuno domandi le ragioni di tale scelta. Nessun tempo di attesa o riflessione: troppo impegnativo domandarsi se quelle persone potrebbero essere aiutate con cure palliative, sostegno sociale o la semplice presenza di un volto amico.
Aborto fino alla nascita, suicidio assistito per i malati
Sulla notizia, celebrata da media e politica come passo di civiltà, ha scritto tutto la filosofa femminista Kathleen Stock in un notevole articolo su UnHerd, ribadendo su X alcuni passaggi che andrebbero mandati a mente. Di che cosa parliamo, quando parliamo di aborti tardivi? Parliamo dell’eliminazione di esseri umani:
«I bambini nel terzo trimestre hanno interessi propri, inequivocabili. Non sono semplici estensioni narcisistiche della madre. Non sono parassiti o invasori. Sono esseri umani. Sono esseri umani dipendenti, e trovo inquietante vedere femministe che parlano del valore della cura e della dipendenza diventare psichicamente disconnesse quando si tratta di riconoscere il valore della vita di un bambino dipendente e vitale solo perché la madre non lo vuole. È di una freddezza spaventosa negare gli interessi di questi bambini semplicemente definendoli fuori dall’esistenza o fingendo che non esistano affatto. Se qualcuno mi dicesse: “Sì, con queste pillole abortive usate a casa per motivi non medici verranno uccisi dei bambini, ma è meno grave del fatto che le madri possano subire un processo”, almeno ne apprezzerei l’onestà».
«Perché preoccuparci di “poche” madri perseguite ma non di “pochi” bambini morti?»
Per Stock la norma che vieta l’aborto tardivo serve da deterrente, impedisce che le madri uccidano i propri figli ma conviene «dimenticare» che sia così.
«Se la si elimina, i decessi aumenteranno. Mi si dice: “saranno solo pochi casi”. E questa sarebbe un’argomentazione? Se non dovrei preoccuparmi di “pochi” bambini morti, perché dovrei invece preoccuparmi di “poche” madri perseguite? […] Inoltre: come potete sapere che saranno solo pochi i bambini che moriranno in futuro?».
Come ha ricordato il parlamentare Jim Shannon, dopo la depenalizzazione in Nuova Zelanda gli aborti oltre le 24 settimane sono cresciuti del 43 per cento nel primo anno. E la crescente accettazione della maternità surrogata dimostra quanto l’asticella si sposti rapidamente: più diventa accettabile, più madri surrogate ci sono in circolazione.
Usare la donna “disperata” per nascondere il bambino morto
Terzo: se per giustificare la morte di un bambino
«dovete dipingere in modo iperbolico l’unico tipo di donna che ricorrerebbe a un aborto tardivo non medico come “disperata” e totalmente senza colpa, allora state ragionando per motivazione ideologica. Esistono molti tipi di donne al mondo, e agiscono per moltissimi motivi diversi. […] L’idea che questa legge debba essere abrogata per via della possibilità di perseguire ingiustamente delle donne è assurda. E ancora una volta: l’uso di immagini teatrali – tipo “donne che hanno avuto aborti spontanei portate via in furgoni della polizia nel cuore della notte sotto gli occhi dei figli piccoli” – è rivelatore: avete bisogno del melodramma per sostenere l’argomento».
Ma soprattutto per nascondere «il morto»:
«Non ci si può affidare, quando si tratta di aborti tardivi, all’ambiguità metafisica della persona; non quando l’argomento è qualcuno che riconosce la voce di sua madre, si succhia il pollice e ha sogni […] Quindi la strategia preferita è il depistaggio emotivo».
«Compassione» e «libertà» sono le stesse parole-chiave impiegate per sdoganare il suicidio assistito e sopprimere chi avrebbe potuto essere aiutato in altri modi. «Quand’è che i nostri parlamentari hanno fondato un culto della morte? – chiede Stock, unendo i puntini – Un libertarismo insensato sta uccidendo la compassione».
Suicidio assistito, «la rivoluzione mortale» del rapporto tra Stato e individuo
Sull’ossessione di Westminster per la morte merita di essere riletto anche l’editoriale di Brendan O’Neill uscito su Spiked il giorno dell’approvazione del suicidio assistito:
«Tutto il chiacchiericcio tecnico sulle “tutele” ci distrae dalle profonde questioni morali sollevate dal disegno di legge. Sia chiaro: questa legge rappresenterebbe una delle revisioni più drammatiche e distruttive del rapporto tra Stato e individuo che abbiamo mai visto. Da un giorno all’altro ci trasformeremmo da una società che cerca di prevenire il suicidio in una che lo facilita. Il servizio sanitario, un tempo orgogliosamente dedito a salvare vite, sarebbe ora incaricato di porre fine a una vita in determinate circostanze. Il grido ippocratico “Prima di tutto, non nuocere” andrebbe in frantumi, sostituito da un nuovo credo funesto: “Non nuocere, a meno che non siano molto malati, nel qual caso forse ucciderli?”. Questa legge autorizzerebbe i funzionari a sanzionare la morte in determinate circostanze. Sarebbe mortalmente ingenuo ignorare la rivoluzione mortale che ciò rappresenterebbe. Lo Stato passerebbe dall’essere una macchina incaricata di difendere la vita dei suoi cittadini a una che a volte gli fa balenare davanti la prospettiva della morte. La legge trasformerebbe alcuni funzionari in piccoli imperatori della morte, con il potere di dare un pollice in su o in giù alla vita dell’individuo in stile Nerone. Stai bene e sei sano? Non devi morire. Sei molto malato o gravemente disabile? Forse dovresti morire. E forse dovremmo aiutarti».
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Lo Stato imperatore della morte
Permettere allo Stato di esprimere giudizi così radicali sul valore di una vita significa entrare «in un inferno tecnocratico in cui la vita umana viene privata della sua intrinseca virtù e ridotta a una lista di caratteristiche da spuntare che qualche apparatchik potrebbe poi esaminare attentamente prima di decidere: vale la pena vivere o non vale la pena vivere. Questa legge riorienterebbe le istituzioni della società verso il dare la morte piuttosto che verso il dare la vita».
Perché sulla nascita e la malattia incombe ormai la visione dell’essere umano come “peso” e della vita come potenzialmente “insopportabile” se non addirittura “dannosa”, dunque da estinguere. Dandoci «un taglio» a inizio e fine vita, grazie ai «macabri contabili dell’élite tecnocratica».
Il comune denominatore tra aborto e suicidio assistito
Entrambe le notizie hanno qualcosa in comune: che si parli di depenalizzazione dell’aborto o del suicidio assistito, a stabilire se una vita meriti di essere vissuta è un elenco di «determinate circostanze» o «caratteristiche». A decidere quando si diventa – o si smette di essere – «qualcuno» è un prontuario col timbro dello Stato: non c’è in questo alcuna compassione, né tantomeno libertà. Durante i lavori della Commissione,
i parlamentari inglesi sono stati redarguiti dai medici australiani sul criterio dei sei mesi di vita per ottenere il suicidio assistito: portatelo a dodici, hanno insistito, molti pazienti superano previsioni fallibili.
Ha ragione, O’Neill. Il chiacchiericcio tecnico su tempi, tutele, scadenze ci distrae dal nocciolo della questione: se questo è un uomo, un bambino, un malato o non è che un peso. Non esiste una via di mezzo. Come sanno benissimo gli “addetti ai lavori” come Ann Furedi, già orgogliosissima ceo del più grande fornitore di servizi abortivi del Regno Unito, il British Pregnancy Advisory:
«Un aborto legale a mezzanotte meno cinque dovrebbe essere considerato un reato alle cinque e mezza? […] Se sei contrario all’aborto, allora sii coerente. Opponiti a ogni tipo di aborto. Un embrione di tre settimane non è meno umano di un feto di 30 settimane. Un aborto legale non è certamente moralmente diverso da uno illegale, se credi che un feto in utero non sia diverso da un bambino».
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