Il suicidio assistito non è mica come nei film di Hollywood. È più un horror
Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un commento di Simon Caldwell apparso martedì 5 novembre 2024 nel sito del mensile britannico. La versione originale inglese dell’articolo è disponibile in questa pagina.
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Come era quasi ovvio, Lord Carey di Clifton, ex arcivescovo di Canterbury, è tornato a fare capolino nel dibattito sul suicidio assistito per ripetere quanto aveva affermato tre anni fa sul British Medical Journal, ovvero che la morte medicalmente assistita dovrebbe essere legalizzata perché non c’è «nulla di sacro nella sofferenza e nulla di benedetto nell’agonia».
Le sue considerazioni sono contenute in una lettera indirizzata ai parlamentari a seguito di un incontro con la deputata laburista Kim Leadbeater, il cui Terminally Ill Adults (End of Life) Bill sarà sottoposto a votazione in seconda lettura il 29 novembre. La lettera è firmata anche da altri leader anglicani, unitariani e dell’ebraismo riformato che la pensano allo stesso modo. Anche l’islam è rappresentato. L’obiettivo principale è dimostrare che esistono divisioni tra i leader religiosi, sebbene la maggioranza di loro sia contraria al suicidio assistito, e creare l’illusione che si possa al tempo stesso essere devoti credenti e desiderare una riforma della legge.
Quinto, non uccidere
I firmatari sostengono che «se una persona malata terminale non desidera vivere i suoi ultimi mesi di vita nel dolore, a quale scopo dovrebbe essere costretta a farlo? E nell’interesse di chi si sta prolungando quella vita? Non è un atto di bontà religiosa costringerla a continuare a soffrire contro la sua volontà».
Il messaggio è: sii buono e ammazzala. Questo, però, non è un sentire cristiano e non ha alcuna base né nelle Scritture né nella Tradizione, i due pilastri dell’insegnamento. Al contrario, uccidere è esplicitamente vietato dal quinto comandamento del Decalogo.
Fin dalle origini della Chiesa questo precetto negativo è stato considerato come un’espressione inviolabile di ciò che è male nella mente di Dio. I cristiani non sono liberi di infrangere i comandamenti, ricordava san Paolo ai Romani quando scriveva che «non è lecito fare il male perché ne venga il bene».
Nell’enciclica Veritatis Splendor del 1993, papa Giovanni Paolo II spiega che suggerire il contrario significa abbandonarsi a «teorie teleologiche o proporzionaliste» che devono essere rigettate perché tentano di giustificare atti immorali, i quali per la loro stessa natura non possono essere ordinati a Dio e al bene dell’umanità, ma sono invece «intrinsecamente cattivi». Tra gli esempi di mali morali intrinseci offerti dalla Gaudium et Spes, il documento del Concilio Vaticano II sulla costituzione pastorale della Chiesa nel mondo moderno, figurano proprio l’eutanasia e il suicidio volontario. La sofferenza non può negare l’insegnamento della Chiesa. Alleviare la sofferenza è un atto caritatevole, ma la sofferenza fa parte della vita, è qualcosa che tutti sperimentiamo in una forma o nell’altra, e che può avere un valore e un’azione di redenzione se unita – o offerta – alla Passione e alla Croce di Cristo. L’unico male da evitare a tutti i costi, invece, è il peccato.
Scordatevi “Million Dollar Baby”
Tuttavia, anche nel loro appello a mettere fine alle sofferenze con il suicidio assistito Carey & co. mancano totalmente il bersaglio, finendo per spacciare il falso mito secondo cui solo un cocktail letale di farmaci o una iniezione letale possano garantire una morte bella e serena. Ma questa è fantasia romantica, roba da film come Million Dollar Baby, dove appena una sola lacrima solca il viso di Hilary Swank mentre Clint Eastwood le stacca il respiratore e le inietta una dose letale di adrenalina. Impossibile non avvertire un senso di eroismo e compassione mentre la donna si spegne, e per la sua interpretazione la Swank ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista nel 2005.
Tuttavia, quel film fu contestato dalle associazioni per i diritti dei disabili. A loro dire avrebbe alimentato il pregiudizio secondo cui la qualità della vita delle persone disabili è «indiscutibilmente indegna di essere vissuta». Eastwood, il regista, replicò che si trattava un’opera di finzione molto sopra le righe, come l’ispettore Callaghan che si fa giustizia alla maniera della frontiera da dietro la canna di una 44 Magnum. Il film, insomma, non andava preso sul serio.
Era un eufemismo. La storia [del film] era assurda perché le morti di questo tipo raramente si svolgono in quel modo. Sono molto peggio.
Quelle morti lente e angoscianti in California
La California ha legalizzato il suicidio assistito nel 2015 grazie al suo End of Life Option Act, che ha concesso ai medici la facoltà di prescrivere farmaci letali a pazienti in fase terminale con la promessa per loro di risparmiarsi una morte atroce. Basta una goccia di “farmaco” e il paziente si accascia come Romeo a Verona.
Il pubblico è stato indotto a credere che fosse semplice, indolore ed efficace. Peccato che non lo sia, e nell’autunno del 2020 i medici californiani che praticavano il suicidio assistito, stufi di fare i conti con parenti affranti e agitati, si sono riuniti per affrontare la realtà fattuale di queste morti e per valutare come poterle migliorare.
Il dottor Lonny Shavelson, un medico di Berkeley considerato il principale operatore di suicidi assistiti nello Stato, ha rivelato a MedicalXPress che in più occasioni i pazienti hanno sperimentato morti lente. «Dopo due ore, le persone cominciavano a essere preoccupate e inquiete», ha raccontato Shavelson. «Si chiedono cosa stia succedendo. Iniziano a camminare per la stanza, vanno in cucina. Così si rovina il clima meditativo. Tra le due e le quattro ore non è l’ideale. Tutti i casi che superano le quattro ore li consideriamo problematici. Guardavo a quello che stava accadendo e pensavo: “Non è così bello come è stato sbandierato”».
«La gente pensa che basta prendere una pillola e il gioco è fatto», ha detto il dottor Gary Pasternak, direttore sanitario del Mission Hospice di San Mateo. «Ma è più complicato di così». Sebbene alcuni pazienti muoiano in tempi relativamente brevi, per molti non è così. Alcuni restano in vita per sei o nove ore, a volte per giorni.
Un sacchetto in testa e via
Nel 2019 a un paziente in Oregon ci sono volute 47 ore per morire a causa di un cocktail letale, e in precedenza un altro uomo, un malato di cancro ai polmoni di nome David Pruitt, ha ingerito l’intera dose di farmaci letali che gli era stata prescritta e si è risvegliato dopo 65 ore. «Che cosa diavolo è successo?», ha chiesto. «Perché non sono morto?». [Pruitt] ha rifiutato di tentare nuovamente il suicidio ed è morto in maniera naturale quindici giorni dopo. È noto poi il caso di un altro paziente che ha impiegato quattro giorni e otto ore per spirare. Questi i pochi casi venuti alla luce nell’ambito di una pratica che rimane in gran parte segreta.
La verità, però, ha un’incredibile capacità di venire a galla. E quando lo fa, spesso è spaventosa. Il dottor Brick Lantz, chirurgo ortopedico dell’Oregon e direttore della American Academy of Medical Ethics, nel 2021 ha messo in guardia il Parlamento britannico a riguardo dei «brutali» e «non infrequenti» insuccessi dei farmaci utilizzati nel suicidio assistito. «C’era un’infermiera al capezzale di un [paziente] che ha finito per avvolgergli un sacchetto di plastica [in testa] perché quello non moriva».
Non è certo una sorpresa dunque che la prima utilizzatrice della macchina per il suicidio assistito Sarcopod sia stata trovata con segni di strangolamento sul collo, probabile vittima anch’essa di una morte assistita mal riuscita.
Complicazioni a non finire
E i problemi non sono finiti. Praticamente non esiste un registro dei decessi per suicidio assistito in Oregon, eppure è stato riscontrato che molti pazienti hanno avuto complicazioni, come convulsioni o rigurgito di parte della dose letale.
Uno scenario simile è emerso nel vicino stato di Washington, dove un terzo dei suicidi assistiti ha dovuto affrontare una morte prolungata, mentre decine di altri hanno patito «complicazioni» spesso non specificate. Molti finiscono per morire per asfissia.
Lo stesso accade nell’Europa continentale. La dottoressa Bernadette Flood ha scritto al British Medical Journal dopo aver esaminato la letteratura relativa alle complicazioni della morte medicalmente assistita, in particolare nei Paesi Bassi. «Una serie di farmaci utilizzati nel suicidio assistito e/o nell’eutanasia erano stati usati in precedenza nelle esecuzioni», ricorda la dottoressa. «L’uso di farmaci durante le esecuzioni è stato descritto come “disumano”, con segnalazioni di persone che hanno provato sensazioni di “bruciore” in tutto il corpo prima della morte». Conclude Flood: «Il processo di suicidio assistito e/o eutanasia non può garantire una morte pacifica, priva di dolore e dignitosa».
In effetti non può. Claud Regnard, consulente in pensione nel campo delle cure palliative, in un nuovo libro intitolato The Reality of Assisted Dying: Understanding the Issues, dice che i dati disponibili rivelano che circa un decesso per suicidio assistito su cinque comporta complicazioni. Il problema è così grave che l’Oregon ha sperimentato quattro diverse combinazioni di farmaci negli ultimi otto anni.
Vomito, ripresa di coscienza, asfissia, convulsioni
Data la sconvolgente incidenza di decessi dolorosi e prolungati, aumenterà la tentazione di consentire la morte per iniezione letale, ma le prove della sofferenza dei pazienti che abbiamo a disposizione a questo proposito sono altrettanto orribili. Sono insabbiate e provengono per lo più dall’esecuzione di prigionieri nel braccio della morte che utilizzano lo stesso tipo di farmaci. Uno dei problemi principali è che i sedativi agiscono a un regime più lento rispetto alle cardiotossine e ai rilassanti muscolari iniettati per fermare il cuore. I condannati quindi non sono ancora addormentati quando vengono uccisi, ma subiscono la morte in uno stato di paralisi in cui non sono in grado di esprimere l’acuta agonia e il dolore che provano.
Fatti del genere sono taciuti come sporchi segreti dai sostenitori del suicidio assistito e dell’eutanasia, sia nel Regno Unito che all’estero, perché sfatano il mito secondo cui queste morti rappresenterebbero in qualche modo un’alternativa umana e dignitosa a una buona terapia palliativa. E non c’è da stupirsi che vogliano mettere tutto a tacere. Un sondaggio di Survation ha rilevato che almeno il 78 per cento degli intervistati si è detto molto preoccupato che il suicidio assistito diventi legge se queste morti comportano «pazienti che a volte impiegano fino a 30 ore per morire, con complicazioni quali vomito, ripresa di coscienza, asfissia e convulsioni». Improvvisamente, quando si è informati sui fatti invece che sulla propaganda aggressiva, si scopre che la stragrande maggioranza delle persone è contraria alla morte medicalmente assistita.
Meglio le cure palliative
Il modo migliore per affrontare il problema della sofferenza alla fine della vita è il ricorso a cure palliative di alta qualità. La Gran Bretagna è stata leader nello sviluppo di queste terapie, ma seguendo l’esempio di altre giurisdizioni, tale progresso sarà sicuramente minato dal suicidio assistito, poiché un cocktail letale è un’opzione molto più economica rispetto a mesi di buone cure. La vera libertà di scelta del paziente sparirà quando le persone scopriranno di non poter decidere che tra un suicidio potenzialmente malfatto o la tragedia di una morte naturale non supportata da medici premurosi e dai farmaci giusti.
I fautori del suicidio assistito finiranno magari per avere la loro morte hollywoodiana. Ma non sarà del genere romantico e incantato che ha reso Eastwood cool e la Swank tragicamente bella. Sarà piuttosto del genere horror, dove il male trionfa, regna la paura e gli innocenti vanno incontro a una morte orribile e dolorosa.
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