Se l’Eurogruppo del 10 luglio ha reso operativo l’accordo sullo scudo salva-spread che Mario Monti aveva portato a casa al summit del 28-29 giugno, se ha deciso che il Fondo salva stati (Esm) può aiutare direttamente le banche senza che l’intervento pesi sui debiti pubblici nazionali, se tutti sono d’accordo sulla creazione di un organismo di vigilanza bancaria europea, se il governo italiano ha appena deciso tagli di spesa per 26 miliardi in tre anni e quello spagnolo addirittura per 65 in due, perché lo spread dei titoli italiani e spagnoli rispetto a quelli tedeschi continua a collocarsi rispettivamente sopra i 450 e sopra i 530 punti? Quando, il 9 novembre dell’anno scorso, Mario Monti è stato nominato senatore a vita e Silvio Berlusconi si preparava a scrivere a Napolitano la lettera di dimissioni da capo del governo, lo spread stava a 575 punti. Dopo otto mesi trascorsi a riformare le pensioni per trattenere i lavoratori sul posto di lavoro fino a tarda età, ad aumentare le accise sui carburanti, a introdurre nuove tasse sulla casa (Imu), a tagliare i trasferimenti agli enti locali e, dall’altra parte, a convincere con le buone e con le meno buone la signora Merkel a organizzare una risposta unanime e adeguata dei paesi dell’eurozona agli attacchi speculativi al debito sovrano italiano, ci troviamo, all’indomani del declassamento deciso da Moody’s, con lo spread a 480 punti e Mario Monti che annuncia ancora «un percorso di guerra durissimo». Ma se otto mesi di sangue, sudore e lacrime e grandi manovre europee hanno smorzato i tassi di interesse dei titoli italiani solo dell’1 per cento, a che serviranno altri sacrifici durissimi? Perché i mercati continuano a penalizzare il nostro debito? Per almeno tre ragioni.
Rimandati a settembre
Diceva Kant che ogni fenomeno si dà nel tempo e nello spazio, e quando si tratta di tempo l’Europa è sempre un disastro. La decisione di ricapitalizzare direttamente le banche spagnole in affanno, senza passare gli aiuti attraverso lo Stato, cosa che provocherebbe un appesantimento del debito pubblico e quindi un’altra involata dei tassi d’interesse (e del relativo spread), è stata salutata come un progresso decisivo nell’efficacia degli interventi volti a evitare il collasso finanziario dell’Europa. Peccato che le cose non stiano così. I primi 30 miliardi di euro che le banche spagnole cominceranno a ricevere dopo il prossimo Eurogruppo del 20 luglio, arriveranno dal Fondo europeo di stabilità finanziaria (che sarà a quel punto sostituito-assorbito nel Meccanismo europeo di stabilità) e peseranno eccome sul debito spagnolo. Probabilmente non basteranno e ce ne vorranno altri 30, ed è probabile che nemmeno questi potranno essere erogati direttamente agli istituti di credito. Prima che ciò diventi possibile e ordinario, infatti, sarà necessario creare un’unione bancaria europea, che passa attraverso l’istituzione di un sistema di vigilanza unico europeo centralizzato. Quanto ci vorrà? «Ci vorrà tempo, è complicato. Tutti sanno che la creazione di un controllore unico non è materia triviale, ma un lavoro enorme». Parola di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco. Se lo dice lui, dobbiamo crederci. E non solo perché effettivamente non basta dire che la vigilanza la eserciterà la Bce. Bisogna decidere come l’ente centralizzato a livello europeo si rapporterà con gli enti nazionali che esercitano la vigilanza prudenziale sul sistema creditizio, e questi non in tutti i casi coincidono con le banche centrali. E poi questo ente sorveglierà solo le grandi banche oppure tutte? E quando riscontrerà anomalie come si procederà? Quale catena di comando porterà dalla segnalazione dell’operatività anomala di una banca ai provvedimenti nei suoi confronti?
La questione è complessa di suo, ma forse pesa anche lo scarso entusiasmo di Berlino per la creazione di un assetto tale per cui sarebbero anche dei forestieri a mettere il naso nelle indebitatissime banche regionali dei Länder tedeschi. Così si dovrà aspettare settembre per una nuova riunione dell’Eurogruppo, alla quale la Commissione europea presenterà qualche proposta circa l’organismo unico di vigilanza bancaria europea da creare. Quindi partiranno le valutazioni. Prima del 2013 l’ente non vedrà la luce. Nel frattempo, chi ha bisogno di aiuti per le sue banche in crisi dovrà fare la solita trafila, imbattendosi magari, come è testé accaduto alla Spagna, in un governo finlandese che chiede allo Stato spagnolo di presentare garanzie se vuole ottenere aiuti per le sue banche: insomma Jyrki Katainen (primo ministro finnico) ha chiesto al collega iberico Mariano Rajoy di firmare un’ipoteca, come farebbe il direttore di una cassa di risparmio con un artigiano che chiede un mutuo per comprarsi la casa.
Uno scudo pericoloso
La seconda ragione di scetticismo dei mercati ha a che fare coi tempi e i modi di entrata in funzione del Meccanismo di stabilità europeo (Fondo salva stati). Alla fine di luglio tutti i paesi dell’euro avranno ratificato il Patto fiscale e il Fondo salva stati. Ma in due paesi sarà la Corte costituzionale a decidere se quanto ratificato dai parlamenti potrà entrare in vigore: uno è l’Estonia, e non è un dramma, ma l’altro si chiama Germania, e lì sono capperi amari. Intanto c’è da fare i conti coi capricci del dio Crono: la sentenza sui ricorsi che hanno chiesto un’ingiunzione che blocchi gli effetti delle ratifiche parlamentari può prendere da un minimo di tre settimane a un massimo di tre mesi. Il presidente della Corte Andreas Vosskuhle ha detto che si farà più veloce che si può, ma che è necessaria una verifica accurata dei due provvedimenti per poter sentenziare circa la loro costituzionalità. Sulla sostanza dei provvedimenti impugnati, per quel che riguardo il Patto fiscale non dovrebbero esserci problemi, ma per quanto riguarda il Fondo salva stati, invece, sì. Lo sgambetto della Corte potrebbe arrivare non sulla liceità del fondo, ma sulla sua eccessiva consistenza. In tutte le passate sentenze su ricorsi inerenti gli impegni europei della Germania, la Corte di Karlsruhe ha sempre scelto di privilegiare i diritti del parlamento, riconosciuti come il baluardo essenziale della democrazia tedesca. Per questo motivo nel 2009 la Corte sospese l’efficacia del Trattato di Lisbona, che secondo i giudici non era stato recepito secondo modalità rispettose della sovranità del parlamento. Quando è stata chiamata ad esprimersi sul Fondo di stabilità finanziaria antesignano del Fondo salva stati, la Corte ha sentenziato che l’adesione della Germania non era incostituzionale, però bisognava fare attenzione a non assumersi impegni troppo onerosi, perché ciò avrebbe compromesso l’autonomia di decisione finanziaria del parlamento, e di conseguenza la democrazia tedesca come tale. Il limite dell’impegno di Berlino è stato fissato alla metà circa dell’entità del bilancio federale, che attualmente ammonta a poco più di 300 miliardi di euro. Ragazzi, siamo già fuori: la quota tedesca nel Fondo salva stati è di 170 miliardi di euro, e se si calcolano gli impegni che la Germania ha già preso per l’Irlanda, la Grecia, eccetera, a seconda del sistema di calcolo si arriva a cifre che stanno fra i 310 e i 495 miliardi di euro. Dove andrà a parare la sentenza della Corte costituzionale si può dunque immaginare, e stavolta nessuno potrà dare la colpa a Frau Merkel.
La terza ragione della implacabile spietatezza dei mercati è che il famoso scudo anti-spread, il grande successo di Mario Monti ottenuto battendo il pugno felpato sul tavolo e minacciando il veto italiano alle decisioni del summit europeo del 28-29 giugno col piglio di un Putin che blocca le risoluzioni contro la Siria di Assad, è in realtà uno scudo di latta. La Bce è stata autorizzata ad acquistare i titoli dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi che hanno già adottato le misure strutturali richieste loro da Bruxelles, ma soltanto usando i soldi del Fondo salva stati. Questo ammonta a 700 miliardi di euro, ma 300 sono già impegnati per Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Cipro. Con gli spread di Italia e Spagna sopra i 450 e i 530 punti rispettivamente nonostante i provvedimenti sinora presi, presto ci sarà da ridere. I soldi per salvare gli equilibri di bilancio italiani sono gli stessi di prima del 29 giugno, anzi meno perché si sono presi impegni per le banche spagnole. L’unico vantaggio, per modo di dire, è che gli acquisti scatterebbero automaticamente, all’Italia non verrebbero richiesti aggiustamenti strutturali. E vorremmo anche vedere, dopo otto mesi di lacrime e sangue e un già annunciato «percorso di guerra» a venire. Gli svantaggi sono che l’intervento riguarderebbe solo i titoli già in circolazione, non quelli delle aste, perché la Bce, com’è noto, non può comprare direttamente il debito degli stati membri; e che lo status creditizio del Fondo salva stati non è stato ancora deciso: sarà quello di creditore privilegiato oppure no? Per gli aiuti alle banche spagnole si è optato per la seconda soluzione, per evitare la fuga dei capitali degli investitori privati. Ma è difficile immaginare che gli stati dell’eurozona accettino di non essere considerati creditori privilegiati nel momento in cui mettono a disposizione decine o centinaia di miliardi di euro. Questo però alimenterebbe la speculazione, coi privati che esigono interessi sempre più alti per rischiare i propri investimenti in condizioni non privilegiate. Insomma, più che a uno scudo quello di Monti assomiglia a un boomerang.
La protesta dei primi della classe
Oltre e prima di queste tre ragioni che spiegano la persistenza degli alti spread, c’è la palpabile sensazione che l’Europa si è sì incamminata sulla strada che porta alla condivisione dei debiti sovrani, ma i paesi del nord non hanno affatto voglia di arrivare alla fine del viaggio. Ancora più di quello degli amletici tedeschi, è eloquente in proposito il comportamento dei finlandesi. Che prima hanno cercato (insieme agli olandesi) di sabotare il funzionamento del Fondo salva stati, esigendo il rispetto della norma che stabilisce che gli acquisti di titoli da parte del Fondo necessitano l’unanimità degli stati partecipanti. Poi, quando hanno scoperto che c’è un’altra norma che stabilisce che in caso di emergenza (definita tale dalla Commissione europea e dalla Bce) è sufficiente una maggioranza qualificata dell’85 per cento e che loro detengono solo il 2 per cento delle quote, si sono accaniti nella richiesta di garanzie aggiuntive da parte dello stato spagnolo per gli aiuti europei alle sue banche. E infine hanno adombrato l’uscita unilaterale della Finlandia dall’euro. Motivo? «Pensiamo che l’euro sia utile alla Finlandia, ma non ci impiccheremo all’euro a qualsiasi costo», ha dichiarato il ministro finlandese delle Finanze Jutta Urpilainen. «Siamo pronti a tutti gli scenari. Responsabilità collettiva per i debiti di altri paesi, per la loro economia e i loro rischi: per questo non siamo preparati. Siamo costruttivi e vogliamo risolvere la crisi, ma non in qualsiasi modo». Se Berlino avesse il mare, sarebbe una piccola Helsinki.