La direzione di Tempi, alla mia richiesta su quale potesse essere l’argomento del mio contributo al numero di marzo, mi ha suggerito “i figli”. In effetti, se ne parla spesso nei raduni di fraternità – l’ossatura della vita comunitaria ciellina. Se ne parla soprattutto laddove sono presenti genitori quarantenni e oltre, con figli adolescenti.
Non voglio qui fare la figura dell’esperto, pedagogista, sociologo o psicologo, interpellato da tv e giornali ogniqualvolta si verificano disastri giovanili: suicidi, violenza o droga. Non sono un esperto, professionalmente ingaggiato in processi educativi e nel loro studio. Ho collaborato trent’anni con don Luigi Giussani nella conduzione del Movimento di Cl, giovani e adulti. Con lui ne ho viste molte e ne ho viste anche da solo. Sono inoltre psicologo, genitore e insegnante, per quanto universitario. Come ho detto un’altra volta, mi chiamano più frequentemente a parlare di educazione che non di medicina, che è il mio mestiere. Non mi chiamano però come esperto, ma come uno che ha qualcosa da dire perché ha vissuto a contatto con una persona – appunto don Giussani – che aveva un sentimento acuto dei rapporti e dei bisogni degli altri. Ed è giusto così – che mi chiamino e che io risponda – perché altrimenti cosa avrei vissuto a fare? Non c’è riflessione più interessante di quella sulla natura degli uomini e sul loro destino, per cui alla fine tutto si fa o si cerca di fare, per quanto ansiosamente e confusamente. In un manifesto di Cl di qualche anno fa si diceva che «se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio».
Anche tra i genitori di Cl, quelli che ormai hanno raggiunto la mezza età – 40-45 anni data l’attesa media di vita degli italiani – e che condividono i problemi di tutti, c’è un appello a essere aiutati da un punto di vista educativo. La questione che emerge non raramente è che i figli non seguono le loro orme, quelle di una vita cristiana impostata, come era ai tempi della loro giovinezza. Questi genitori sono ormai la terza generazione ciellina, nel senso che, se per me Giussani è stato un padre, per loro è un nonno. Noi, quelli della mia generazione, intorno ai settant’anni, abbiamo goduto di una paternità inaspettata e grande, che, pur allontanandosi, sembra aver resistito per i nostri figli; si è invece sfocata per i loro. Don Gianni Baget Bozzo, proprio su questo giornale, in un commento all’esperienza di Cl, diceva che, apprezzando lui l’atteggiamento mistico (spirituale), non aveva adeguatamente capito la sottolineatura comunitaria del Movimento. Doveva però riconoscere che Cl era l’unica realtà ecclesiale capace di tramandare e trasmettere la fede ai figli. Succede ancora, ma non linearmente come prima. Il percorso è diventato più accidentato con non poche interruzioni. Come prima ho detto che non voglio fare l’esperto, così non voglio fare l’analisi sociologica di spezzoni di vita intra-ecclesiale. Spero solo di contribuire a far fronte a quelli che appaiono elementi di dispersione.
Un riferimento comunitario
Quando le difficoltà riguardano i figli, la vicenda si fa assai più drammatica che con ragazzi di fatto più distanti, alunni o amici dei figli. I genitori quanto più sono attaccati, tanto più si sentono messi alla prova e si interrogano, magari ansiosamente, sui possibili errori compiuti. È giusto, ma è ancora più giusto che domandino ad altri, amici e persone mature. La valutazione altrui può aggiungere elementi nuovi e soprattutto contribuisce a obiettivare la propria, magari sproporzionatamente ingigantita dal non saper che fare e dalla paura conseguente. Inoltre se i figli vedono nei genitori un riferimento comunitario, possono comprendere che il richiamo a loro rivolto non è arbitrario, ma confrontato in una dipendenza, che è la stessa richiesta a loro con l’obbedienza. È molto difficile richiamare un giovane a non fare quello che vuole, se l’adulto non gli mostra che anche lui segue, che non si abbandona a quello che gli pare. L’indipendenza ribelle dei figli trova terreno fertile nell’autonomia di fatto dei padri e delle madri, che non ascoltano nessuno.
Il primo segreto dell’educazione è in una affermazione che mi hanno detto provenire dall’Africa e che ho sentito qualche volta ripetere, pur senza coscienza: per crescere un uomo ci vuole un villaggio; una compagnia che sia contesto ai figli come ai genitori. Il primo fattore diseducativo, in ordine logico e cronologico, non è la tendenza all’isolamento dei giovani, ma l’isolamento di fatto degli adulti. Che specchiano se stessi nella televisione o in rapporti con individui autonomi come loro. Per forza poi i ragazzi scivolano nella contemplazione di sé, nella incolmabile distanza prodotta dalle chat telefoniche e dai video dei computer.
Avere chiaro quel che si vuole
Il secondo aspetto decisivo dell’educazione è che in essa nulla è scontato. Non è un processo meccanico, dove, date certe premesse, sono sicure le conseguenze. Non che non si debba preoccupare delle premesse, come un ambiente familiare sereno, una buona scuola e buone compagnie. Tuttavia l’educazione è un rischio perché sia per i genitori, che per i figli c’è sempre di mezzo la libertà, dote che, come si suole dire, permette di fare quello che si vuole, ovvero di aderire alle proposte giuste, ma anche di rifiutarle a favore di quelle sbagliate. Propriamente la seconda opzione non favorisce la libertà perché se si segue una strada sbagliata non si è più liberi, non si sta meglio, ma peggio. È importante pertanto avere chiaro quel che si vuole, come oggetto sia della proposta dei genitori che dell’adesione dei figli. È il lavoro infinito di apprendimento e approssimazione alla verità, alla natura e al destino delle cose e delle persone. Certo uno può aver riconosciuto la verità e volutamente negarla, come novello Capaneo, ma «il non giudicate» cui invita Gesù è a non prendere il posto di Dio, a essere umili nel richiamo, lasciando all’altro, in particolare se giovane, una via di fuga, la possibilità di riprendere e correggersi. Qui Dio, non solo si aggiunge, ma fonda il villaggio educativo. Non ci fosse Dio, la verità sarebbe i genitori, i maestri, la società in cui si vive. Sarebbe un sopruso intollerabile. Infatti la forza e la persuasività della proposta dell’adulto può stare in “segui me”, solo se ciò significa “segui quello che io seguo”: la verità infinitamente più grande di me, la verità di Dio, come ci è tramandata e testimoniata dalla compagnia di un popolo amico. Se la verità è infinita, l’educazione come coscienza e cammino si approfondisce, ma è sempre un inizio. Anche per i genitori. Don Giussani diceva che educare è il modo adulto di imparare.
Tutti abbiamo fatto esperienza che è più facile seguire chi affascina e il fascino è certamente il fattore più favorevole all’obbedienza. Se un insegnante di canto fa bene il suo mestiere indurrò più facilmente chi ascolta a impegnarsi nel coro. Ma ci sono due inconvenienti. Il primo è che la capacità di affascinare è un dono che non tutti posseggono nello stesso modo e nemmeno possono deprimersi o scoraggiarsi se non lo hanno. D’altra parte non è che un insegnante può entrare in classe pensando “adesso li affascino”, faccio uno spettacolo e li stupisco. Deve essere lui affascinato da qualcuno, indicandolo come esempio da praticare e seguire. Il fascino non proviene da presunzione o vanità personale. L’altro inconveniente è che nonostante tutti gli sforzi di comprensione e confronto, l’educatore o il genitore può non riuscire a convincere e affascinare. Non tutto è perduto. Rimangono il rispetto e il timore indotti dalla sua autorità, tanto più forte quanto più la sua vita è impegnata non a imporsi, ma a seguire e comunicare il vero incontrato. Non ci si deve scandalizzare di far leva sul timore o sullo scappellotto che allontani il bambino dalla stufa prima che si scotti. Questo i genitori lo sanno e devono saperne far uso prima che i figli si facciano del male.
Ricordare tutto, perdonare sempre
Come spero di avere adeguatamente espresso, il fattore principale dell’educazione è l’appartenenza degli educatori a un’amicizia e a una verità che li sostenga. L’educazione è un’intelligenza affettivamente coinvolta. Bisogna stare insieme, il tempo poco o tanto che è necessario; non si cambia nulla senza sacrificio e dedizione. I ragazzi, i figli, qualunque cosa facciano, anche quando si allontanano sono nostri. Abbiamo dato loro la vita e, per quel che siamo stati capaci, il senso della vita. Sono impronte indelebili, a cui non possiamo, né dobbiamo rinunciare.
I figli che si ribellano sono nostri come quelli che ci obbediscono. Il loro atteggiamento risente della nostra responsabilità, molto più di quanto pensiamo. Se ci compiaciamo del loro assenso non possiamo passare sopra il dissenso, dimenticandolo. Dobbiamo ricordare tutto e perdonare, sempre, instancabilmente, ricominciando da capo. Così ha ricominciato Dio, con l’incarnazione del Figlio, manifestando che la sua verità coincide con la misericordia, che insiste, attende e riprende; misericordia che non è tenera nel senso sentimentale del termine, ma è correttiva, sostiene chi vi si appoggia, sempre! (Finale un po’ predicatorio, ma vero).
Foto di ROBIN WORRALL per Unsplash