Gli americani sono pragmatici. Giudicano dai risultati. Si muovono per i soldi e per altri benefici misurabili. L’efficienza è per loro supremo criterio di scelta, il calcolo fra costi e benefici un’arte che è andata affinandosi nel tempo. Apprezzano i risultati sonanti, la certezza delle statistiche, non si baloccano troppo con le prese di posizione ideologiche, fumo filosofico buono per le svolazzanti menti europee rimaste incastrate in qualche altro secolo. Ai manifesti d’intenti preferiscono gli istogrammi; se ne fregano delle apparenze e vanno al sodo. Prendono decisioni sulla base dei dati, non di convincimenti indebitamente universalizzati, e non hanno idee tradizionali abbastanza solide da non poter essere rimpiazzate alla bisogna da surrogati più funzionali. Si potrebbe andare avanti per ore a ingrossare l’antologia dei luoghi comuni intorno alla leggenda del pragmatismo americano. Poi si dà uno sguardo al rapporto fra i risultati politici di un presidente e la sua popolarità e tutti i luoghi comuni si squagliano immediatamente.
Lo strano caso di Barack Obama è esemplare in questo senso: nei suoi sei anni di presidenza l’America è uscita da una recessione che certo non era imputabile al presidente, l’economia si è lentamente ma stabilmente ripresa, i posti di lavoro si sono rivisti, la borsa ha raggiunto i massimi storici; Obama ha chiuso un fronte di guerra, quello iracheno, ed è in procinto di portare a casa i suoi ragazzi dall’Afghanistan, ha accuratamente evitato di mettere le mani in qualunque ipotesi di conflitto si presentasse, ha tagliato corto con la storia dell’America poliziotto globale, figurarsi con quella dell’impero del bene di George W. Bush che combatte l’asse del male. Ha fatto del disimpegno internazionale e del pragmatismo domestico una filosofia di governo e di vita. Ha dato all’America una riforma sanitaria che va nella direzione della copertura universale in stile europeo, ha alzato quanto poteva le tasse ai ricchi, i vermi che hanno scavato nella mela bacata del capitalismo, ha bacchettato banchieri e promosso una riforma del sistema finanziario che dovrebbe fare da argine contro le future tempeste.
Non ha firmato una legge in favore del matrimonio gay, ma più scaltramente ne ha vidimato in pectore lo spirito, limitandosi a “evolvere” nelle sue convinzioni matrimoniali mentre la macchina della giurisprudenza faceva rimbalzare ricorsi su fino alla Corte suprema. Il presidente sulla battaglia Lgbt non ci ha messo l’autografo ma ci ha messo il cappello, e non è poco in una disputa cresciuta nell’alveo lincolniano dei diritti civili da conquistare, figura postmoderna dello spirito dell’abolizionismo. Insomma, Obama ha fatto molto di quello che, a sentire i bene informati, gli americani chiedevano come un sol uomo alla fine della presidenza Bush. Eppure i sondaggi sulla popolarità relegano Obama all’ultimo posto della classifica dei presidenti americani dal secondo dopoguerra a oggi.
Un sondaggio della Quinnipac University (vedi qui sotto) dice che il 33 per cento degli americani pensa che Obama sia il peggiore presidente degli ultimi sessant’anni, anche peggio del suo odiatissimo predecessore, fermo al 28 per cento, largamente peggiore dell’infinitamente deprecabile Richard Nixon e dell’imbelle Jimmy Carter. Per rendere la percezione ancora più amara per Obama, il sondaggio rivela che il più amato fra i presidenti da Truman in poi è nientemeno che Ronald Reagan, più venerato di quanto Obama è odiato (35 per cento). Più staccato nella classifica John Fitzgerald Kennedy, con il 15 per cento dei consensi.
Assecondando lo spirito del tempo
Obama ha dato al popolo quello che il popolo chiedeva, sempre stando ai bene informati, ha guidato o assecondato – a seconda delle circostanze – lo Zeitgeist, con tutte le sbavature e le manchevolezze in cui necessariamente incorre chi armeggia con la realtà extramentale, ma tutto sommato il suo governo è andato nella direzione che si proponeva. Perché allora il giudizio popolare è tanto impietoso? Perché emerge quello che la Cnn chiama “Obama disconnect”, l’asimmetria fra le non poche prove che Obama potrebbe teoricamente esibire a suo vantaggio e l’impopolarità diffusa che invece ne è venuta fuori?
Federico Rampini su Repubblica conclude una dettagliata analisi del fenomeno lasciando intendere in una riga che in fondo la colpa è del capitalismo: l’economia si starà anche riprendendo, ma se ad arricchirsi oltremisura sono sempre e solo i ricchi che affamano la middle class – e non potrebbe essere altrimenti, perché il capitalismo è nato con la sindrome della diseguaglianza, lo dice Thomas Piketty in un libro che tutti hanno comprato e nessuno ha letto – che gusto c’è a crescere? Obama dovrebbe insomma rivoltare il sistema come un calzino, inaugurare un nuovo paradigma sociale ed economico, allora sì che si potrebbero riporre le basi per una nuova convivenza. E forse i sondaggi tornerebbero a sorridere.
Le belle visioni di una volta
Il giudizio equanime sull’operato presidenziale di norma arriva assieme alla distanza storica, ma l’“Obama disconnect” contiene già nel presente chiavi interpretative utili. Innanzitutto smonta l’idea del pragmatismo e del funzionalismo di andamento tecnocratico come vettore dominante della percezione politica degli americani. Reagan certamente ha dato contributi politici perimetrabili, e in questi tempi di inconcludente polarizzazione politica, come si dice, un altro luogo comune di sicuro successo consiste nell’evocare nostalgicamente i bei tempi andati in cui Reagan e il democratico speaker della Camera Tip O’Neill siglavano ragionevoli compromessi politici davanti a un drink. Sono giusto un filo meno citate le battaglie elettorali di Reagan prima di agguantare la Casa Bianca, montate su una piattaforma politica libertaria che al confronto l’odierno Tea Party sembra un’accozzaglia di figuranti in maschera, perché nella vulgata circola un’acuta allergia all’idea che le proposte politiche di natura identitaria possano avere presa sul popolo.
Reagan è rimasto scolpito nei cuori degli americani perché ambiva a interpretare un ideale. Su tasse, ruolo dello Stato, famiglia, vita, crescita economica, rapporto fra settore pubblico e privato, spesa pubblica, debito, politica estera, ruolo dell’America nel mondo e via dicendo il reaganismo si rifaceva a una concezione del mondo tendenzialmente organica. C’erano la tattica e il compromesso, eccome se c’erano, ma c’era anche la tensione ideale, quella che scalda i cuori e argina la dittatura del relativismo.
La patria declassata
Se l’America davvero preferisse il freddo problem solver al leader carismatico, persino apocalittico – e vale sia in senso democratico che repubblicano – due anni fa avrebbe votato a mani basse Mitt Romney, che aveva il portafogli, la mentalità, il physique du rôle e il sorriso finto ed efficiente dell’amministratore delegato della nazione da ristrutturare. Avrebbe potuto fare una perfetta due diligence e un nuovo business plan. Obama a quel punto era debole, ma era ancora “inspiring”. E l’America è pur sempre il “progetto della modernità”, come dice lo storico Stanley Hauerwas, unico esperimento insieme liberale e puritano che non nasce dall’opposizione con una cultura precedente ma interpreta la sua vocazione in senso assertivo, e questo esperimento non può che nutrirsi di ideali. I presidenti che vi rinunciano sono condannati a un serafico oblio, quelli che li evocano per poi abbandonarli, sottomettendoli alla logica della convenienza, guadagnano l’attivo disprezzo.
L’inquietudine della nuova era
Obama può essere considerato il curatore fallimentare delle “culture wars” americane su sessualità, famiglia e altri conflitti limitrofi trattati come materia di diritti civili, dunque verità di tipo self-evident confermata dalla lettera della Costituzione, ma questo non può non generare un’inquietudine in un popolo che ancora non appare pronto al perfetto e simultaneo appiattimento cerebrale sui dettami della cultura liberal. I sondaggi che lo vogliono peggiore presidente americano dal dopoguerra, a dispetto degli “accomplishment” da esibire come sintesi di una nuova era, non sono che il riflesso dell’inquietudine da disconnessione obamiana.