Il romanzo che riporta alla luce la “Grande Catastrofe” dei greci in Turchia
In occasione dell’anniversario dell’incendio di Smirne (13 settembre 1922), momento culminante della cosiddetta “Grande Catastrofe” o “Catastrofe dell’Asia Minore”, le edizioni Settecolori pubblicano la prima traduzione italiana di un capolavoro della letteratura neo-ellenica, Il numero 31328 di Ilias Venezis, con prefazione della celebre autrice di origini armene Antonia Arslan. Ne parliamo con il traduttore dell’opera, Francesco Colafemmina, autore anche di una postfazione che aiuta ad inquadrare una tragica pagina di storia di cui la pubblicistica si è sempre occupata poco.
Cosa fu la “Catastrofe dell’Asia Minore” e perché è importante ricordarla dopo cento anni?
Fu una tragedia immane nel corso della quale morirono circa 1,5 milioni di greci che vivevano in Anatolia. A questi vanno aggiunti i quasi due milioni di profughi che si riversarono sulle isole greche o sulla terraferma in cerca di un nuovo inizio. Quei morti furono causati da un insieme di azioni compiute dall’esercito regolare del generale turco Mustafa Kemal Atatürk, fondatore e primo presidente della Repubblica di Turchia morto nel 1938, nonché da truppe di partigiani turchi irregolari, i famigerati tsetes, già protagonisti del genocidio armeno.
La catastrofe fu nondimeno la conseguenza di un ardito progetto, di una visione ambiziosa da parte di un certo establishment politico greco: riunire le terre irredente dell’Ellenismo sotto l’egida della “Megali Idea” (la Grande Idea), il sogno di una grande Ellade non più vagamente ispirata all’antichità classica e alle glorie periclee, bensì proiettata verso la riconquista di Costantinopoli, nuova capitale di una potenza regionale in grado di controllare tutto l’Egeo.
Com’è potuta arrivare ad avere, la Grecia, quest’ambizione militare?
In realtà furono le grandi potenze a fomentare questo sogno, nel 1919, lasciando che i greci portassero avanti una vera e propria guerra per procura contro quel che restava dell’Impero ottomano. Quando però si ricostituì una parvenza di unità politica e militare sotto il generale Kemal, le cose cominciarono a cambiare. E gli alleati di un tempo, Gran Bretagna in primis, smisero di sostenere le ambizioni greche. Finanziamenti e forniture di armi all’esercito kemalista fecero il resto.
Da lì l’esercito greco sprofondò.
Sì, nell’agosto del 1922 Mustafa Kemal lanciò un attacco sull’esteso fronte greco, fermo a una cinquantina di chilometri da Ankara. L’esercito greco, provato da conflitti politici all’interno dello Stato maggiore e da mesi di inazione, diede avvio a una ritirata scomposta e disperata. I greci fuggirono in pochi giorni dall’Asia Minore lasciando le popolazioni greche autoctone al ludibrio delle truppe turche. Marce forzate, deportazioni nei famigerati “battaglioni di lavoro” turchi (gli Amelè Taburù), esecuzioni sommarie, incendi e devastazioni segnarono quei giorni intrisi di sangue e vendetta. Scompariva definitivamente, e nel peggiore dei modi, la millenaria presenza ellenica in Asia Minore.
In quale punto della storia si inserisce l’opera di Venezis?
Nel Numero 31328 Ilias Venezis racconta le vicende vissute in prima persona dall’ottobre del 1922 – quando i turchi arrivarono ad Ayvalı, sua città natale – fino al 1923, con la liberazione dell’autore (seguita al trattato firmato a Losanna tra la Turchia e le potenze dell’Intesa). All’epoca Venezis era uno scrivano del vescovado di Ayvalı – o Kydonìes secondo l’antico toponimo greco –, cittadina di venti-trentamila abitanti esclusivamente greci. Era un giovane avviato alle lettere dal grande pittore di icone Fótis Kóntoglou. I turchi intimarono a tutti i maschi dai 18 ai 45 anni di consegnarsi. Di qui comincia la tragedia vissuta dall’autore. Come ricorda anche Antonia Arslan nella bella prefazione, dei 3.000 ostaggi presi con lui soltanto 23 sopravvissero.
Una tragedia disumana, costellata di episodi di grande violenza, si potrebbe dire quasi di compiacimento nel far soffrire gli inermi civili greci, costretti a marce forzate a piedi nudi e con indosso solo gli indumenti intimi…
La vita nei battaglioni di lavoro all’interno dell’Anatolia preannuncia né più né meno l’inferno concentrazionario della Seconda Guerra mondiale. Ma è proprio lì che si manifesta la grande maestria di Venezis, la cui lingua scabra e immediata, priva di superflui giudizi morali, in grado di scandagliare l’animo umano senza attardarsi in inutili ghirigori psicologici, mette in mostra la crudeltà, la bestialità dell’uomo, la sua improvvisa discesa agli inferi. Più si cammina fra pietre taglienti e rovi, poi, più si affievolisce l’umanità anche fra gli “schiavi”, fra i prigionieri deportati, a testimonianza di quanto fragile possa essere il cuore dell’uomo quando è piagato da sofferenze fisiche oltre che morali.
Qual è il rapporto con la fede nell’opera?
Il numero 31328 fu pubblicato per la prima volta nel 1931, ebbe poi una riedizione censurata nel ’37, al tempo del regime di Metaxas, e in seguito riapparve nel 1945. Nel frattempo molte cose erano mutate nella vita di Ilias Venezis. Nel 1943 era stato arrestato dalle SS per aver declamato i versi dell’Inno alla Grecia – poesia del francese Mistral nella versione di Kostis Palamas ,– versi che inneggiano alla difesa della patria: «E se dobbiamo morire per la Grecia,/ divino è l’alloro. Si muore una volta sola!». Fu grazie all’arcivescovo ortodosso di Atene, Damaskinòs, che Venezis riuscì a salvarsi. Per questo, quando nel 1945 rivide il testo del Numero, decise di espungere o modificare certi brevi e secondari passaggi del libro che potevano avere una leggera coloritura anticlericale. Nell’edizione seguente, pubblicata per i tipi della famosa casa editrice Estia, arrivò addirittura ad aggiungere, all’inizio di ogni capitolo, versetti tratti dai Salmi.
Cosa maturò in lui?
A mio avviso è una prova di quanto Ilias Venezis intendesse dare un tono universale alla propria opera, e nello stesso tempo, in quel lamento rivolto al Signore, trovare un’àncora di salvezza anche per i suoi carnefici, perché peccato e male sono elementi comuni della condizione umana. Emblematico poi un passaggio del romanzo, quando nel campo di concentramento di Magnesia un ufficiale impone la preghiera ai prigionieri, di venerdì, come per i musulmani. Lì Venezis, nel commentare lo straniamento degli schiavi radunati nel grigio salone di un ex manicomio adibito a prigione, commenta così: «Siamo impotenti, siamo come le spighe di grano. Sappiamo soltanto che gli uomini ciò che vogliono ci fanno. Perché sei arrivato anche tu, Signore, a ricordarci che non ci sono solo gli uomini, ma ci sei pure tu?». L’autore sembra non perdere mai di vista Dio, anche quando dimenticarsene sarebbe più semplice, anche quando odiare sarebbe l’unica risposta possibile alle sofferenze.
Nella sua postfazione lei riporta alla luce una lettera di Venezis del 1946 a un quotidiano parigino. Il lettore Boulakbeck, probabilmente algerino, aveva protestato con la redazione per una recensione entusiasta della traduzione francese del Numero 31328, adombrando esagerazioni delle violenze commesse dai turchi…
Sì. E Venezis risponde che la sua non è che una cronaca autentica di quanto accadde nel 1922, cionondimeno scritta «senza odio», a questo lui tiene sopra ogni cosa. Perché per l’autore è vero che «il contadino turco è un essere sinceramente buono», ma il fatto che di quest’uomo «il demone della guerra e del fanatismo religioso, risvegliando in lui i peggiori istinti, abbia potuto fare una bestia feroce, proprio questo costituisce al fondo tutta la tesi “antibellica” del libro». La lettera di Venezis, ritrovata nella biblioteca di Atene, finisce così: «E mi dispiace che il suo lettore musulmano non abbia voluto evidenziare che in tutto questo libro, documento di un cristiano sui martìri che gli sono stati inflitti dai correligionari del signor Boulakbeck, non ci sia odio. L’odio, questa potenza che è stata talmente deificata, ma che si rivela come talmente sterile».
La traduzione quanto toglie allo smalto autentico dell’opera?
Tradurre Venezis significa cercare di addentrarsi nella selva di sfumature nelle sue espressioni. Spesso introduce parole inesistenti nei dizionari, ma proprie della lingua parlata dell’Asia Minore, una sorta di koiné nella quale confluivano parole provenienti dal turco, dall’italiano o dal francese. Il mio sforzo di traduttore è stato quello di preservare lo stile asciutto, immediato, dell’autore, fatto di improvvise irruzioni di lirismo in un discorso piano, semplice, quasi giornalistico. Spero di essere riuscito a trasmettere la magia del testo originale.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!