
Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
«Suonare l’arpa? Nemmeno per sogno». Ma questa è un’arpa stupenda, «è uno degli amori a prima vista di Paolo. L’ha portata a casa, restaurata, e se ne è in fretta dimenticato. Non può suonarla nemmeno un arpista perché ha due corde montate al contrario». Ridacchia Antonia Arslan, «anche tutti questi tappeti, a decine ammassati uno sull’altro. Un giorno ha deciso che doveva diventare esperto di tappeti ed eccoli qui», accarezza con lo sguardo le librerie, «anche queste sono sue: lui disegnava, progettava e un amico falegname realizzava». Quale grande tenerezza e sapienza sostiene questa dimora, pensi seguendo la vivace scrittrice attraverso i grandi saloni della casa padovana degli Arslan: quali scrigni, tesori, slanci, addii, sotterranee speranze nel rincorrersi allegro di muri, pavimenti e prospettive. Una santa premura di intrecci di altissime librerie, finestre, scorci sul giardino, quadri, vetrine e tante porcellane illuminate come gemme; e ancora il piano, l’arpa, tappeti, ogni oggetto, scrittoio, migliaia di dorsi di libri e argenti sembrano restituire un quieto ballo della vita. Non è un’abitazione, è un paesaggio popolato di storie quello in cui vive e scrive l’immensa voce del popolo armeno e in cui, in un’alba scura e polverosa, Arslan ha messo una mano sul cuore del marito Paolo Veronese, «a presto, amico della mia vita».
Se ne era andato così, il 2 febbraio scorso, il “professore”, scintillante docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Padova, scrittore, critico musicale e teatrale, esperto di antiquariato, cucina, amico di artisti e intellettuali: «Frequentavamo lo stesso liceo classico, il Tito Livio, e ci detestavamo come si conviene ai primi della classe di due sezioni diverse. L’ho sbaragliato alla maturità. Poi un giorno, appena universitari, ci siamo visti alla Sala dei Giganti dell’Università di Padova prima di un concerto, abbiamo iniziato e chiacchierare e non abbiamo smesso più. Il 3 marzo 1962 ci siamo sposati – con gran disappunto dei parenti sono andata all’altare in marrone scuro perché il bianco lo detesto – e l’11 dicembre è nata Cecilia».
L’Armenia brucia e il 20 novembre la grande autrice della Masseria delle allodole doveva ricevere il Premio Cultura Cattolica a Bassano del Grappa (purtroppo rimandato) per la sua coraggiosa testimonianza di fede mai scesa a patti col «politicamente corretto. Le sue opere, pur descrivendo il dramma del genocidio armeno e le sue terribili conseguenze, non hanno mai smesso di lanciare messaggi di speranza e di cercare la bellezza, in tutte le sue forme», recita la motivazione del riconoscimento che andò ad Augusto Del Noce, Joseph Ratzinger, Luigi Giussani, Hanna-Barbara Gerl Falkovitz.
Mite e fantasticante
L’esercito azero ha bombardato la cattedrale di Cristo Salvatore, «e io sono stata a Shushi tre volte, l’ultima con la mia amica Siobhan Nash-Marshall», spiega Arslan a Tempi, mostrandoci una foto che la ritrae sorridente davanti alla cattedrale appena restaurata, stretta in un abbraccio alla filosofa e studiosa americana conosciutissima dai lettori di Tempi, «era una città molto importante nell’Ottocento, uno dei crocevia della Via della seta, distrutta durante la guerra per il Nagorno-Karabakh. E ora la storia si ripete, i massacri sono ricominciati». Nulla ci ha destato alla verità come l’indagine storico-familiare della Arslan sul genocidio armeno perpetrato all’inizio del secolo scorso dall’Impero ottomano. Nulla più dei suoi scritti ha restituito vita a un popolo mite e fantasticante, ricco di una cultura cristiana millenaria spazzato via dalle proprie terre ancestrali con una tale violenza da lasciare intere generazioni senza parole. «Per anni non seppi nulla di zio Sempad, decapitato dai soldati turchi, la sua testa gettata in grembo alla moglie Shushanig, nulla di suo figlio Nubar, che scampò al massacro di tutti i maschi perché la madre lo aveva travestito da femminuccia, o dei quattro fratelli medici del nonno che giravano per la città cantando “Siamo i felici dottori Arslanian” e vennero trucidati, nulla delle sue sorelline morte di fame».
Le voci dei sopravvissuti
Fu nonno Yerwant, patriarca a cui nessuno disobbediva, luminare dell’otorinolaringoiatria catapultato dall’Anatolia a Venezia appena quindicenne (suo padre lo affidò a dei banditi in cambio di un gruzzolo in banconote tagliate a metà: ebbero la seconda parte solo quando Yerwant gli scrisse dal Collegio Armeno), a raccontare alla piccola Antonia di soli 9 anni la tragedia che decimò la sua famiglia, i nobili Arslanian (nel ’23, per mimetizzarsi, il grande medico ottenne dal Re d’Italia il permesso di troncare le ultime lettere del suo cognome). «Ero in preda a una febbre alta e insidiosa, vedevo misteriosi giardini pieni di buio. E una notte mia madre Vittoria mi avvolse in una coperta e mi portò dal nonno ordinandogli di salvarmi la vita. Fu lui a trovare la penicillina e a convincermi a sottopormi a 36 punture dolorosissime in cambio di 50 lire l’una. Se devo morire ne voglio almeno 100, replicai. Chiudemmo a 75 lire. Dopo di che mi portò in convalescenza sulle Dolomiti, a Susin di Sospirolo. È lì, sotto i glicini dell’albergo alpino Fratelli Doglioni, che l’est e l’ovest si unirono, mi raccontò di sua mamma Iskuhi dalle gote di pesca che morì di parto a 19 anni, di Sempad e Shushanig, di Azniv e Veron, della Piccola Città, Kharpert, dove era nato nel 1865, e della fine del suo popolo».
Quelle storie sarebbero rimaste nascoste, vigili e protette nel cassetto segreto del cuore di Arslan per mezzo secolo prima di diventare, nel 2004, un romanzo pluripremiato, La masseria delle allodole, finalista al Campiello, tradotto in ventitré lingue e portato sullo schermo nel 2007 dai fratelli Taviani. Seguiranno La strada di Smirne, Il rumore delle perle di legno, Lettera a una ragazza in Turchia, La bellezza sia con te e moltissimi altri. «Non avevo mai scritto un romanzo. Mi limitavo a scrivere poesie sulla Guerra dei Trent’anni e ballate – le scrivo ancora nelle notti di inquietudine – che non mi sono mai sognata di dare alle stampe, e dopo la laurea in archeologia, quando ho ho iniziato a insegnare Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, mi è capitato di scrivere cose interessanti, tra le altre un fortunato volume su Dino Buzzati e alcuni saggi di critica come Dame, droga e galline o Dame, galline e regine. Mi ero innamorata del Canto del pane e di Mari di grano del grande poeta e martire armeno Daniel Varujan, ho curato libri sul Metz Yeghèrn e le voci dei sopravvissuti del genocidio. Mai avrei pensato al romanzo, sulla mia famiglia poi. È stata Siobhan a dirmi: “Guarda che non devi inventarti nulla, il tuo romanzo è già dentro di te”».
Il maialino sotto il cappotto
Fin da piccola Antonia sapeva di appartenere a una famiglia speciale. Prima di tre fratelli e una sorella, il padre Khayel (Michele Arslan), celebre chirurgo e accademico, la preferiva a tutti e sognava seguisse le sue orme. «Diceva sempre che se non fosse stato costretto dal nonno a fare medicina sarebbe diventato un letterato. Ma quando gli dissi che era esattamente quello che avevo intenzione di fare io mi trascinò in sala operatoria costringendomi ad assistere a un’autopsia e a un intervento. Avevo 17 anni e uscii dalla sala operatoria più convinta di prima. Lo accontentò mio fratello Edoardo, diventando un luminare dei disturbi all’orecchio». La madre Vittoria era invece una polesana vigorosa e spavalda, alta, bella, capricciosa e tutta italiana, con una sterminata schiera di parenti dall’appetito gagliardo e molto diversi dai gentiluomini orientali di ramo paterno. «Durante la guerra riuscì a scovare nelle campagne mezzo maialino e ad infilarselo sotto il cappotto quando la sua Gelsomina fu fermata da una pattuglia tedesca – “attento Antonio, non vorrà mica che scodelli il bambino qui?” – aveva detto all’autista che tremava di paura. E ancora, al giovane ufficiale della Wehrmacht mostrandogli il sangue del maialino che macchiava la stoffa: “Non vede che sto per partorire? Vorrà mica assistermi lei?”. E così il maialino arrivò indenne nella cucina della nostra casa sull’argine del canale alle chiuse del Dolo, dove eravamo sfollati durante la guerra».
Lì Antonia crebbe con la tata Teresa, la governante Gigia coi sottanoni larghi di stoffa scura, un aviatore inglese nascosto nel granaio, la zia Henriette, figlia di Sempad, che apprese dal nonno «si trovava in braccio alla mamma quando decapitarono suo padre e il suo sangue le imbrattò il viso». Sapeva e non sapeva di questa cosa degli armeni: certo, la casa era sempre piena di sfollati d’Etiopia, del Libano, della Siria, cugini che studiavano al Collegio Armeno Moorat-Raphael, a Pasqua si recavano tutti all’isola san Lazzaro a mangiare il lavash e la marmellata di rose. Erano già tornati a Padova, dimora di famiglia, quando la piccola Arslan proclamò a sua madre che la guerra sarebbe finita di lì a un mese entro il giorno del suo compleanno che cadeva il 30 aprile. Vittoria l’aveva schernita, ma il nonno no: «Qualche volta i bambini portano con sé il destino e non lo sanno. Al mio paese, nella Piccola Città, si diceva che quando un bambino parla di cose da grandi, spesso è un Altro che parla attraverso di lui», e promise ad Antonia di farle costruire una bella casa di legno per le bambole se la guerra fosse finita entro la fine del mese. «Fu così che il 25 aprile 1945 ebbi la mia bellissima casa delle bambole», sorride Arslan.
Qualche notte prima si erano dimenticati di lei, le sirene suonavano, le bombe falciavano Padova, tutti erano scappati nel rifugio antiaereo. E quando Antonia era scesa lesta con i calzetti e le scarpe aveva trovato solo il nonno pensieroso su una panchetta all’ingresso. «“Hai paura?” mi chiese. E come potevo averne, ero col capostipite. Gli dissi di no e mi parlò del grande Paese perduto dove avrebbe ritrovato i suoi cari, terra di meloni giganteschi e di grappoli immensi. Al suo funerale i seminaristi cantarono il possente Der Voghormià (Signore abbi pietà): avete mai sentito il canto nostalgico della comunione? Zia Henriette diceva che “sembra la voce di tutti i nostri morti, come un fiume di dolore che viene offerto a Dio”».
Una fede più forte dei massacri
Antonia Arslan chiude gli occhi e intona un canto struggente e bellissimo che proprio come un fiume riempie la dimora degli Arslan. «Mi sarebbe piaciuto commuovere la gente con questo canto. Invece ero una bambina testarda, riuscii a piegare ai miei capricci anche nonno Carlo (padre di Vittoria, ndr), che combattè la Grande Guerra ed era pieno di medaglie ma non riusciva a dire di no alla nipote che lo trascinava giù dalla discesa da Susin a Sospirolo, gettando ogni sassolino in ogni buca della canaletta coperta».
Fu a Susin che Arslan iniziò a vivere e immaginare le storie dei cugini e degli zii che «aspettavano pazienti nei grandi prati del cielo», la sofferenza delle sorelle del nonno che si trascinavano nel deserto coi piedi sanguinanti verso la lontana Aleppo. «Nonno Yerwant li chiamava “resti di un immenso naufragio”». E ora la storia si ripete, e gli armeni lasciati in pasto al sultano ancora una volta, dopo essere già morti di «tutte le morti della terra, le morti di tutti i secoli, come le definì Armin Wegner, ufficiale tedesco e coraggioso testimone degli indiavolati giorni del massacro. Morti che ancora percorrono come sangue le vene della storia armena che Erdogan vorrebbe cancellare da un piccolo territorio che impedisce il collegamento tra Turchia, Azerbaigian ed altri ex Stati dell’Urss, etnicamente turcomanni».
La Chiesa apostolica armena ha proclamato tutti santi le vittime del genocidio: avevano l’umiltà di una minoranza sottomessa, ma anche la fierezza di essere stato il primo popolo a proclamarsi cristiano. Fu Giovanni Paolo II a compiere il primo viaggio ufficiale nella Repubblica d’Armenia, il piccolo Stato nato dalle ceneri dell’Unione Sovietica nel 1700esimo anniversario della conversione dell’Armenia al cristianesimo, «una fede più forte di massacri, conversioni forzate, e simbolicamente presente in tutto il Paese, con le sue suggestive croci di pietra, le sue chiese di cristallo, i suoi monasteri».
«Accidenti»
Dopo il terremoto del 1988 che provocò migliaia di vittime e sfollati Wojtyla donò al villaggio di Ashotsk, 15 chilometri dal confine con la Georgia, l’ospedale Redemptoris Mater. Il reparto pediatrico porta il nome di Antonia Arslan che non ha mai smesso di spendersi per il suo popolo, «ricordo un viaggio allo splendido complesso di Noravank, ci fermammo a mangiare a metà strada in riva a un ruscello in una casa tradizionale con un forno interrato bellissimo dove cuoceva il pane lavash. Ci fu una discussione, un gruppo di signore voleva comprare a tutti costi un vaso presente nella casa che il proprietario si rifiutava di vendere, “appartiene alla mia famiglia”, ripeteva. Poi qualcuno gli disse che ero “quella scrittrice della Masseria delle allodole” e di fretta me lo consegnò, grato, “un regalo per lei”».
È scesa la sera nella casa di Padova, dove Antonia Arslan ha narrato di corpi e anime rivestite di Cristo fin dagli albori del IV secolo, identità millenarie forgiate alle pendici maestose dell’Ararat, discendenze inghiottite dal Metz Yeghern, il Grande Male, e di tutte le persone, amatissime, della sua vita. «Accidenti», pensò quando le spiegarono che la giuria del Premio internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura cattolica aveva deciso all’unanimità di assegnarle il riconoscimento. Che provvidenza, aggiungiamo noi, mentre in Nagorno-Karabakh torna a scorrere il sangue, le chiese vengono distrutte e la caduta della città sacra di Shushi è imminente.