Ho fatto il tifoso professionista per due anni. Ogni domenica partivo dal mio paesello per andare a vedere il Genoa. Quando giocava in casa, prendevo il treno col bandierone e me ne andavo a piedi verso Marassi rispettando tutte le tappe del rito. All’andata ci fermavamo a prendere una “pesca” che era un bombolone ipercalorico di dimensioni ciclopiche. Al ritorno, sosta a Borgoratti per la pizza. Si vinceva poco, si ingrassava molto. Infine, alla stazione di Nervi, tutti al finestrino per insultare un anziano facchino sampdoriano che una volta aveva commesso l’errore di manifestare la sua fede. Andavo anche in trasferta. Una volta, a Reggio Emilia, dopo una partita che il Grifo pareggiò all’ultimo minuto (un furto clamoroso) io e il mio amico Maurizio sbagliammo strada e ci trovammo in mezzo ai tifosi avversari che uscivano incazzati neri. Ci tirarono dietro qualche insulto e tutto finì lì. Finì anche la stagione del tifo: intuii che, alla domenica, ci fossero cose più interessanti da fare. Lumare le pupe, ad esempio. Oggi, ogni volta che supero sull’autostrada il bus di un club, penso alla fatica, ai soldi, alla tensione, al tempo che questa gente investe per il calcio. Ogni volta che vedo coltelli, striscioni osceni, catene, sangue e sento i cori contro i neri mi chiedo che cosa c’entri tutto questo con quella fatica, quando il vento sia girato. Non è moralismo. E’ nostalgia. Sarà la vecchiaia?
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi