“Non muoio neanche si mi ammazzano”. I figli di Guareschi raccontano la periferia del Mondo piccolo e il suo centro: «Il crocifisso che parla»
Rimini. “Non muoio neanche se mi ammazzano”. Il famoso motto che Giovannino Guareschi coniò appena arrivato a Czestochowa, dove i nazisti avevano costruito un lager nel quale lo scrittore emiliano è stato rinchiuso nel 1943 e dove un bambino gli aveva donato una mela con sopra l’immagine dei suoi dentini, dice molto della sua «umanità» e di quanto siano reali i personaggi dei suoi racconti, non solo del Mondo piccolo. A suscitare quella reazione infatti era stato il ricordo di suo figlio, l’Albertino di tanti racconti e presente al Meeting insieme alla sorella per parlare di suo padre, il cantore delle periferie per eccellenza. “Sulla corteccia rossa e lucida della mela vedo l’impronta dei dentini del bimbo e penso a mio figlio. Lo zaino non mi pesa più, mi sento fortissimo. Lo debbo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo rivedrò. Non muoio neanche se mi ammazzano!”, scriveva in Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia.
RICORDO DELLA PASIONARIA. Come il bambino che in collegio si sentiva morire e don Camillo riesce a far uscire a correre, episodio che tanto ne ricorda uno di vita reale raccontato dalla figlia Carlotta, meglio conosciuta come la Pasionaria: «Mio babbo è stato un babbo buono, con lui si stava bene e io me lo sono potuta godere solo negli ultimi anni, i meno felici, quando stava male ed era umiliato. Lui mi ha portato sulla cattiva strada. Andavo a scuola a Cremona, lontano da casa, e lui, che aveva odiato il collegio da bambino, mi accompagnava ma prima di salire sul ponte si fermava e diceva: “Vuoi proprio andare a scuola oggi?”. Mi faceva fare tantissime assenze e il preside si arrabbiava moltissimo. L’unico rimpianto che ho è di essermelo goduto poco».
LA LEZIONE DEI MULI. Lo scrittore di Roccabianca, celebrato a Rimini anche da una mostra, viene ricordato così dal figlio Alberto, che prova a spiegare perché i suoi sono i libri italiani più tradotti al mondo: «Quando ero ufficiale di complemento a Vipiteno, mio padre insistette per venirmi a trovare, anche se aveva appena avuto un infarto. Amava molto il corpo degli alpini e una volta arrivato mi chiese, anche se era proibito, di andare a vedere i muli nella stalla. Siccome era sera lo feci entrare e ricordo che guardando quelle bestie meravigliose sembrava un ragazzino che otteneva finalmente una cosa desiderata da tempo». Ecco una delle chiavi della sua opera: «Lui si emozionava per le piccole cose, era un uomo vero. Ed è per questo che i suoi libri ancora oggi fanno ridere, commuovere e pensare tanta gente».
IL VANGELO IN DIALETTO. Un altro pregio della periferia di Guareschi è che si tratta di un luogo dove è ben visibile che “il destino non ha lasciato solo l’uomo”. «Il centro dell’opera e della vita di Guareschi è il crocifisso, che parla con la voce della coscienza di Giovannino e che è in grado di mettere d’accordo tutti – spiega Egidio Bandini, presidente del “Club dei Ventitré” -. È la Grazia che riesce a ricomporre i drammi». La provvidenza è al centro di questo Mondo piccolo, anche perché è la cosa più semplice: «Solo i grandi riescono ad essere semplici e mio padre riusciva a scrivere a strati – ricorda Carlotta – facendosi così capire da tutti. Mio padre pensava in dialetto e se una frase italiana tradotta in dialetto non veniva bene, lui la cambiava». E Giovannino diceva spesso: «Provate a tradurre in dialetto il Vangelo: è facilissimo. Provate a tradurre un discorso dei nostri politici: è impossibile».
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1 commento
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Certamente aveva capito che si inizia a godere la vita eterna quando si ritorna semplici come i bambini. I quali, godono sempre dello stupore di ciò che li circonda.
Grazie Giovanni Guareschi, e ora intercedi per noi.