Non fondi ma opere di ricostruzione
Non saranno la manna dal cielo del Recovery Fund né la logica statalista dei ristori a salvare l’Italia dal decadimento economico e sociale. C’è bisogno di «un nuovo stile di governo», come ha scritto il 25 febbraio sul Corriere della Sera Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Ma anche della certezza del diritto e di un ulteriore fattore che in questa sua intervista a Tempi Mingardi sintetizza così: «Noi cerchiamo in quello che facciamo non solo una fonte di reddito, ma anche un significato, un senso per la nostra vita».
Se, come ha scritto sul Corriere della Sera, i fondi europei non bastano, perché c’è chi guarda ai 200 miliardi di euro di Next Generation Eu come a un nuovo Piano Marshall?
Sono attesi come la manna del cielo! L’idea, soprattutto all’interno della classe politica ma non solo, è che lo sviluppo del paese si possa riaccendere con “donazioni”. Un grande economista del secolo scorso, Peter Bauer, a chi sosteneva la necessità di accrescere gli stanziamenti per gli aiuti allo sviluppo, faceva notare che avere denaro è la fine, non l’inizio, del processo di crescita economica. Da noi invece va per la maggiore una specie di “keynesismo d’accatto” che immagina moltiplicatori altissimi per tutti i quattrini che arrivano da Bruxelles. Dovremmo concentrarci di più su come provare a far crescere il prodotto.
A che livello il confronto tra i due stanziamenti regge il paragone, se lo regge?
Il paragone potrebbe reggere sul piano politico. Il Piano Marshall servì soprattutto a infondere nei paesi dell’Europa occidentale fiducia nel fatto che avrebbero avuto gli Stati Uniti al loro fianco. Il Recovery Fund può restituire fiducia nell’Europa e fare avvertire ai paesi mediterranei la solidarietà del resto dell’Unione.
Mario Draghi può reincarnare l’“effetto De Gasperi”?
La politica di personaggi alla De Gasperi non ne produce da tempo. Ma Draghi è un uomo di straordinario prestigio, una carta potenzialmente molto fortunata per il nostro paese, per le relazioni e l’esperienza che ha maturato. I tratti fondamentali di Alcide De Gasperi erano visione politica e tempra morale. La caratteristica principale di Draghi è un’esperienza che in un paese come il nostro non ha pari. Quale sia la sua visione politica non lo sa nessuno perché da buon civil servant è sempre stato megafono e non ventriloquo delle istituzioni per cui ha lavorato. Sono convinto che possa avere effetti politici dirompenti, portando a una inaspettata ridefinizione dell’identità dei partiti. Lo sta già facendo, per certi versi, pensiamo alle dimissioni di Zingaretti o alla scissione nei Cinque stelle. Draghi è “l’adulto nella stanza” che obbliga, con la sola presenza, una politica da troppo tempo infantile a crescere.
Commentando il paragone tra l’Italia post bellica e quella alle prese con la pandemia, lei ha fatto notare che, nel Dopoguerra, «la ricostruzione avvenne in buona parte prima dei sussidi statunitensi». Che lezione trarne?
Il futuro dell’Italia non può dipendere da soldi presi a prestito, deve dipendere dall’energia che riusciremo a mettere nell’opera di ricostruzione. È uso comune lamentarsi che la nostra relativa prosperità ci abbia infiacchiti. Può essere vero. Faccio presente, però, quello che mi pare, sotto il profilo culturale, il fatto più rilevante di quest’anno: abbiamo inondato l’Italia di “ristori” e “sostegni”, coerentemente con una visione politica e culturale per cui l’ideale era il reddito di cittadinanza, cioè il disaccoppiamento di reddito e sforzo, guadagno e fatica. Ma abbiamo scoperto che nessun “ristoro” fa felice chi lo riceve: i proprietari degli impianti di sci vorrebbero tenerli aperti, i barbieri e i negozianti vorrebbero lavorare, i dentisti vogliono mettere le mani in bocca ai pazienti e i sarti cucire loro addosso i vestiti. La pandemia ha mandato in soffitta l’idea che il valore del lavoro fosse una formula novecentesca, codina, una fantasia padronale. Non è vero: noi cerchiamo in quello che facciamo non solo una fonte di reddito, ma anche un significato, un senso per la nostra vita.
Lei denuncia il fatto che «nell’Italia di oggi l’incertezza pandemica è accresciuta da una fiducia taumaturgica nei poteri della spesa pubblica, condivisa dalla quasi totalità dell’agone politico». È un male incurabile?
Nel breve termine credo non ci siano rimedi. Si dice spesso che quest’anno tutto il mondo è ricorso allo Stato. Vero, ma il resto del mondo non partiva da dove partivamo noi. Probabilmente, la scarsa fiducia nella responsabilità dei singoli, l’incapacità di scommettere sulle persone, ha peggiorato anche la qualità della risposta sanitaria alla pandemia: anziché sensibilizzare le persone, anziché insegnare loro a stare distanti e a prendere le cautele del caso, anziché definire regole d’ingaggio generalmente applicabili, abbiamo giocato a decidere chi può fare cosa su base settimanale, il massimo della discrezionalità.
Perché il «costante ricorso a strumenti come la Cassa depositi e prestiti per ampliare il perimetro dello Stato» non è la risposta?
Perché il fatto che lo Stato sia proprietario, in toto o in parte, di una impresa dovrebbe migliorarne la performance? Lo Stato azionista tende a sostituire i fini economici con fini extra economici. O mette in secondo piano l’efficienza nella allocazione dei fattori per tutelare, tanto per fare un esempio, l’occupazione in un particolare territorio; oppure, se è un buon azionista, se tende cioè ad agire affinché l’impresa sia più efficiente, non persegue fini politici. O è dannoso o è inutile. Nel primo caso tutela i tassi di occupazione nel breve periodo, facendo però perdere efficienza all’impresa nel lungo, con ripercussioni sull’occupazione. Nel secondo caso toglie spazio a capitali privati senza motivo. Lo Stato azionista è funzionale solo alla logica di un ristretto gruppo di manager delle imprese pubbliche che, non a caso, sono più o meno sempre quelli.
Ampliando lo sguardo sul panorama industriale, cosa insegna la vicenda Autostrade?
Che i politici parlano di investimenti, ma l’unica cosa che interessa loro sono atti spettacolari (la rinazionalizzazione delle autostrade) che di per sé non sono positivi per il contribuente ma diventano bandiere da agitare innanzi agli elettori. Autostrade è l’emblema della latinoamericanizzazione dell’Italia. C’è un’indagine in corso che chiarirà chi sono i colpevoli per i fatti di Genova. Perché non aspettare che la giustizia faccia il suo corso, pronti ad agire di conseguenza e sanzionando ciò che va sanzionato? Invece abbiamo dichiarato guerra a un azionista (i Benetton) per il gusto di offrire uno scalpo agli elettori, giustamente arrabbiati per quanto è accaduto. Senza avere il buon gusto di ricordare che, quando avviene una tragedia di quel tipo, il regolatore, il ministero dei Trasporti, non può far finta di non esserci stato e di non avere avuto responsabilità.
Il pensiero va subito all’Alitalia, costata allo Stato 13 miliardi, secondo Mediobanca.
Bisognerebbe avere il coraggio di tirare una linea, dicendo che da oggi si cambia approccio. Si possono proteggere e garantire i lavoratori senza acconsentire a che i contribuenti seguitino a mantenere in vita imprese zombie. Non succederà: tutti i partiti italiani vogliono avere una compagnia di bandiera italiana.
Se all’Italia in agonia non bastano i soldi del Recovery Fund qual è l’urgenza primaria del paese?
È riscoprire il diritto. Frenare la deriva per cui la Costituzione si sospende con un Dpcm, i primi ministri dicono nelle interviste che non gli garbano gli azionisti di una certa impresa e si comportano di conseguenza, i contratti non si rispettano e magari si riscrivono unilateralmente secondo le bizze del momento. Bisogna regolare lo Stato e la politica: il diritto serve a questo, a rendere più prevedibile il loro comportamento, perché i cittadini possano vivere la loro vita senza temere gli improvvisi lampi di genio dei detentori del potere.
Foto Ansa
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