

«Noi armeni siamo preoccupati: la Turchia intende portare a compimento i massacri cominciati 105 anni fa». Dichiara così a tempi.it Ani Vardanyan, docente di lingua italiana di 38 anni residente a Erevan, capitale dell’Armenia. Il paese è in prima linea in difesa della Repubblica dell’Artsakh, che governa il Nagorno Karabakh, attaccato il 27 settembre dall’Azerbaigian, con l’appoggio della Turchia. «Per gli azeri si tratta semplicemente di un territorio, per gli armeni invece il conflitto non è una questione territoriale, bensì esistenziale: lottiamo per il nostro diritto alla vita».
Qual è la situazione a Erevan? Con quali sentimenti la popolazione armena sta vivendo il conflitto?
C’è molta preoccupazione, ma c’è anche molta fiducia nel futuro. Non è la prima volta che gli armeni si trovano ad affrontare l’aggressione dell’Azerbaigian, anche se adesso la situazione è molto più preoccupante.
Perché?
La presenza dei militanti siriani ai confini dell’Artsakh e il coinvolgimento della Turchia nel conflitto aggrava ulteriormente la situazione. Le forze armate azere bombardano gli insediamenti civili, gli ospedali e le scuole prendendo di mira i civili, tra cui medici e giornalisti. Durante gli attacchi sono stati uccisi più di 30 civili e più di 100 sono rimasti feriti. Inoltre le forze armate azere impiegano armi vietate secondo le leggi internazionali come le bombe a grappolo o missili a lungo raggio che possono causare disastri umanitari e ambientali.
Quali sono fino ad ora le conseguenze del conflitto sulla vostra vita quotidiana?
L’impatto è enorme, ma qui siamo molto uniti. Le nostre risorse sono concentrate sulle priorità assolute, tutto il resto può aspettare. Siamo consapevoli di dover essere forti come si è forti in prima linea e come si è forti nelle città dell’Artsakh, dove gli attacchi incessanti hanno distrutto le abitazioni ma non l’anima degli abitanti. I giornalisti stranieri, per esempio, sono rimasti strabiliati dall’assenza di criminalità vedendo le persone entrare nei negozi bombardati ma pieni di prodotti, scegliere ciò che gli serviva e lasciare i soldi vicino alla cassa. La solidarietà è forte.
Come si manifesta?
Appena giunta la notizia degli attacchi lungo il confine dell’Artsakh tutti gli armeni, inclusi quelli della diaspora, si sono mobilitati. Molti sono partiti per l’Artsakh per assistere chi è rimasto lì, altri operano in diverse città armene. Sin dal primo giorno il nostro governo organizza e gestisce l’assistenza indirizzata a tutti coloro che hanno dovuto lasciare le proprie case. Oltre agli enti pubblici migliaia di famiglie hanno accolto gli abitanti dell’Artsakh a casa propria. C’è chi raccoglie fondi e beni di prima necessità per assistere chi ha più bisogno, diverse imprese dedicano una parte significativa dei loro profitti ai fondi di assistenza, viene fornita assistenza psicologica. I bambini dell’Artsakh attualmente sono privati del loro diritto all’istruzione e molte scuole dell’Armenia, con centinaia di insegnanti, stanno cercando di garantire loro la continuità degli studi nei limiti del possibile.
La tregua che doveva cominciare sabato scorso ha retto poche ore. Il governo di Baku ha incolpato Erevan e viceversa. È in atto anche una guerra dell’informazione?
I mass media devono verificare sempre le notizie. Il cessate il fuoco umanitario sarebbe dovuto entrare in vigore alle 12:00, invece pochi minuti dopo, esattamente alle 12:05, le unità azere hanno lanciato un assalto in direzione dell’area Karakhambeyli fermato immediatamente dalle truppe armene. Se si può parlare di guerra dell’informazione sicuramente è scatenata dal governo azero. I dati dicono chiaramente chi è più affidabile.
Quali dati?
Secondo l’Indice della libertà di stampa 2020, l’Armenia si posiziona al 61esimo posto nella classifica, l’Azerbaigian al 168esimo. Secondo il Democracy Index, che misura lo stato della democrazia in 167 paesi, l’Armenia è all’86esimo posto, invece l’Azerbaigian al 146esimo. Non dimentichiamo che giornalisti, artisti e politici che hanno visitato l’Artsakh sono inseriti in una lista nera del governo azero e considerati personae non gratae. Solo pochi giorni fa la procura generale dell’Azerbaigian ha avviato un procedimento penale contro Semyon Pegov, giornalista di guerra che si trova in Artsakh. Se oltre 200 giornalisti stranieri sono arrivati in Armenia per coprire il conflitto e alcuni sono rimasti feriti, in Azerbaigian è vietato l’ingresso ai giornalisti stranieri e i pochi che sono riusciti ad ottenere il visto vengono costantemente monitorati dal governo.
È preoccupata dal coinvolgimento attivo della Turchia nel conflitto?
Sì, molto. Ankara, fornendo le sue armi agli azeri e trasferendo al confine con l’Artsakh migliaia di militanti siriani, vuole destabilizzare la regione portando il conflitto fuori controllo. Una politica adottata e messa in atto in precedenza in Iraq, Siria, Libia e Mediterraneo orientale. La Turchia persegue anche un altro obiettivo: portare a compimento i massacri degli armeni cominciati 105 anni fa. L’Azerbaigian vuole conquistare un territorio, noi armeni combattiamo per una ragione esistenziale, per il nostro diritto alla vita. Vorrei però aggiungere una cosa.
Prego.
Anche voi dovreste essere preoccupati dall’atteggiamento della Turchia, che rappresenta una minaccia per il mondo intero. Come ha detto esplicitamente il primo ministro armeno Nikol Pashinyan durante una delle sue interviste (anche a Repubblica, ndr): «Nel caso la comunità internazionale non valuti il significato geopolitico di questa situazione l’Europa deve aspettare la Turchia alle porte di Vienna».
Poche settimane fa, l’Azerbaigian ha bombardato la cattedrale di Cristo san Salvatore. Perché secondo lei?
La cattedrale di Cristo San Salvatore è il simbolo della città di Shushi e gli attacchi al patrimonio culturale e religioso armeno non fanno che confermare la volontà da parte del governo azero di compiere un altro genocidio culturale.
Un altro?
Non dimentichiamo che nel Nakhichevan, tra il 1998 e il 2005 gli azeri hanno distrutto la maggior parte di circa 2.500 khachkar (le tradizionali croci di pietra, considerate tra le manifestazioni più alte del patrimonio religioso armeno, riconosciute nel 2010 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, ndr). Anche in questo campo l’Azerbaigian prende lezioni dalla Turchia, il primo responsabile della distruzione del patrimonio culturale-religioso armeno. Noi ci ricordiamo bene della distruzione operata dagli ottomani e dai loro successori della maggior parte di circa 2.000 monasteri e chiese nell’Armenia Occidentale. Voglio sottolineare infine che il governo armeno ha già dichiarato che non prenderà di mira i luoghi di culto azeri per vendetta.
Come giudica la reazione dell’Unione Europea allo scoppio del conflitto?
Direi che la comunità europea è pressoché assente, continua a fare appello al cessate il fuoco senza mai parlare dell’Azerbaigian come paese responsabile dell’offensiva. Ma deve sbrigarsi a passare dalle parole ai fatti, perché chi non agisce è complice. L’Europa ha il dovere di fermare Azerbaigian e Turchia, prima che il conflitto diventi fuori controllo, e condannare l’aggressione e i crimini di guerra azeri. Come può Bruxelles non rendersi conto che l’onda del ritrovato panturchismo alle porte dell’Europa è una diretta minaccia per gli europei stessi?
Foto Ansa
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