
Morire facile e senza tutele a New York

Lunedì il Senato dello Stato di New York ha approvato il Medical Aid in Dying Act (Maid), un disegno di legge che legalizza il suicidio assistito per chi è «malato terminale» e con una speranza di vita inferiore ai sei mesi. Approvato il 29 aprile dall’Assemblea dello Stato (81 voti a favore e 67 contrari) il disegno di legge permetterebbe solo a pazienti «mentalmente competenti» con una «prognosi di sei mesi di vita» di richiedere un farmaco letale. Il condizionale è d’obbligo: il Maid à la New York non prevede alcun periodo di attesa, nessuna consulenza psichiatrica obbligatoria, e nessuna revisione indipendente dopo la morte.
Un «disastro annunciato», lo ha definito il cardinale Timothy Dolan evidenziando l’incoerenza tra gli sforzi per prevenire il suicidio nello stato e la proposta di legalizzare una forma di morte assistita che trasformerebbe i medici in «assassini». E non solo. Tutti i paradossi dell’adagio caro agli attivisti (“legalizzare la morte assistita non toglie nulla a chi vuole vivere”) emergono nell’inchiesta di Madeleine Kearns pubblicata alla vigilia del voto su The Free Press.
Ventiquattr’ore per morire. Nessun tempo per ripensarci
Non solo non c’è alcun obbligo di follow-up dopo la somministrazione del farmaco letale, ma la legge proposta a New York ignora anche ciò che altrove è considerato un minimo sindacale di prudenza: il tempo di attesa. In Oregon, primo stato americano a introdurre il Maid, il paziente deve attendere almeno quindici giorni tra richiesta e prescrizione del veleno, salvo deroga nei casi terminali estremi. In altri stati, lo schema è simile: il tempo di riflessione serve a disinnescare l’impulso del momento, a “garantire” che il desiderio di morire non sia figlio della disperazione.
A New York no. Richard Doerflinger, bioeticista dello stato di Washington che da quarant’anni studia le normative sul suicidio assistito, ha definito il disegno di legge newyorkese “il peggiore del suo genere”. «È la prima volta che vedo un testo senza alcun periodo di attesa», ha detto a Tfp. Un paziente potrebbe svegliarsi una mattina, dire “voglio solo morire”, firmare, ottenere la ricetta e ingerire il farmaco in meno di ventiquattro ore.
Nemmeno la valutazione psichiatrica è obbligatoria. Il ricorso a uno specialista della salute mentale per comprendere se si tratti di “scelta ragionata” è previsto solo se il medico sospetta un “disturbo psicologico” che interferisca con queste capacità. In altre parole: la perizia è facoltativa e subordinata al fiuto del medico. Anche in stati con criteri più severi, la protezione resta imperfetta: in Oregon, un uomo con una lunga storia di depressione e tentativi di suicidio ricevette regolarmente il farmaco dopo la diagnosi di cancro terminale (non lo assunse). In Colorado, giovani donne con anoressia hanno ricevuto ricette letali per una patologia curabile.
Chi è davvero un malato “terminale”?
Il secondo problema riguarda la definizione di “terminale”. La legge parla di malati con «prognosi entro sei mesi», ma non chiarisce sulla base di quali criteri si stabilisca la soglia. Lydia Dugdale, medico ed esperta di etica alla Columbia University, avverte: «Molte persone affette da malattie croniche possono diventare terminali se interrompono le cure. E questo amplia significativamente l’idoneità». Cita due esempi emblematici: il diabete e l’Hiv. Ma chiunque smetta determinate terapie può rientrare nella categoria dei “terminali”. Le derive sono già documentate in Stati dove il suicidio assistito è legale da tempo.
In Oregon, l’elenco delle “malattie qualificanti” comprende condizioni come anoressia, artrite, insufficienza renale, ernia, cadute accidentali, complicazioni da trattamenti medici, disturbi muscolo-scheletrici. In Maine, basta l’ipertensione. La logica è semplice: se la vita diventa difficile, la morte deve essere facilitata. La conseguenza è un ampliamento ben oltre le intenzioni originarie del concetto di «terminale». Un ampliamento che di fatto trasforma il suicidio assistito da eccezione a opzione sistematica.
La storia di Stephanie. E quella di JJ Hanson
Poi ci sono le storie, più volte raccontate anche da Tempi, come quella di Stephanie Packer, giovane madre californiana affetta da sclerodermia. Quando ha provato a ottenere l’autorizzazione per un trattamento sperimentale, l’assicurazione l’ha rifiutato. Ma le è stato offerto, gratis e senza esitazioni, il cocktail letale per porre fine alla sua vita. La sua testimonianza, raccolta dalla Kearns, è sconvolgente: «Mi hanno detto che coprivano le spese per il suicidio assistito, ma non per la terapia».
O quella di James Joseph (“JJ”) Hanson: 33 anni, newyorkese, nel 2014 gli è stato diagnosticato un tumore cerebrale terminale. Diversi medici gli avevano detto che gli restavano solo quattro mesi di vita. «Sono grato di non aver dato ascolto a quei dottori. Se avessi preso quelle pillole per il suicidio nei miei momenti bui, forse non sarei qui oggi», raccontò dopo la nascita del suo secondo bambino, Lucas. JJ è morto nel 2017 e come dice sua moglie Kris, «è questo è il pericolo del suicidio assistito. Non lo saprai mai, se fai questa scelta. Potresti aver vissuto come JJ: ha avuto tre anni e mezzo di vita, tanti bei momenti che abbiamo condiviso come famiglia. James ha avuto modo di conoscere suo padre. Noi abbiamo Lucas. Le gioie che abbiamo potuto vivere in questi tre anni e mezzo sono troppe per essere contate».
Zero controlli, New York apre al suicidio assistito sregolato
L’altra promessa tradita in partenza è quella del controllo. Il disegno di legge newyorkese non prevede alcun monitoraggio postumo: nessuna autorità indipendente verifica se la prescrizione è stata usata, in quali condizioni, con quali esiti. Richiede solo che il medico curante registri i dettagli nella cartella clinica del paziente. E che un commissario esamini “un campione” di tali cartelle producendo una relazione annuale al parlamento sulla conformità. Ma chi decide quali documenti “campione” il commissario esamina?
Inoltre, come sottolinea Doerflinger, «il fatto che il certificato di morte di un paziente riporti la malattia di base come causa del decesso non è un’esclusiva di New York, ma ciò che è unico a New York è che non c’è altro modo per scoprire quali pazienti sono stati sottoposti a questo processo». In altre parole, se si scoprisse che vi sono stati usi impropri della legge dello Stato di New York, o addirittura coercizione o abuso, non ci sarebbe modo di individuarli.
Chi decide per chi? Il paradosso dei promotori del Maid
C’è infine il paradosso morale di chi ha sostenuto la legge. Jeremy Boal, ex primario e ora malato di Sla, ha deciso di usare «il tempo che mi rimaneva» per fare campagna a favore della proposta, con un obiettivo esplicito: rendere il suicidio assistito più accessibile anche ai cittadini «meno fortunati». Sebbene vivesse a New York, sapeva di avere «le risorse e le conoscenze per trasferirsi, se necessario» in uno stato in cui l’assistenza medica al suicidio fosse legale, ma il pensiero lo confortava solo fino a un certo punto.
«Sentivo il dovere nei confronti dei miei concittadini newyorkesi di provare a rendere questa cosa accessibile anche a loro». Da qui la campagna a favore dell’accesso al suicidio assistito per i più poveri e bisognosi. Un gesto nobile? I più fragili sono davvero contenti di ricevere l’offerta di una morte più facile, invece di un’assistenza migliore? È quello che voleva Kat, trentenne della Columbia Britannica a cui la provincia canadese ha offerto l’eutanasia al posto delle cure («Vorrei vivere, ma se non posso curarmi non mi resta che morire»)? È quello che voleva Roger Foley, canadese di 42 anni, affetto da atassia cerebellare, al quale l’ospedale consigliava insistentemente di uccidersi per liberare il posto letto? Tempi ha raccontato decine di storie di “poveri e bisognosi” liquidati da Maid e simili nei paesi in cui la buona morte è stata legalizzata.
Il suicidio assistito come “dono per la famiglia”
Anche la motivazione psicologica viene spesso travisata. In Oregon, quasi la metà dei pazienti che scelgono il suicidio assistito lo fa per il timore di essere un peso per i propri cari. Quando Kearns lo ha fatto notare a Nancy, sorella di una donna morta con il Maid, la risposta è stata significativa: «Penso che possa essere un dono che un paziente fa alla sua famiglia, affinché possa vederlo morire in pace… mi sembra piuttosto ragionevole». Per chi?
I sostenitori del Maid – racconta Kearns – spesso sono persone forti, lucide, determinate. Ma proprio per questo rischiano di costruire una legge a loro immagine, dimenticando che non tutti i malati sono dotati della stessa forza, delle stesse risorse, dello stesso sostegno familiare. O della stessa volontà di farla finita, aggiungiamo. È il paradosso della legge newyorkese: pensata per garantire libertà, finirà per abbandonare chi ha meno alternative.
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