Tornano a scuola per occuparla: «I prof sprecano il tempo a mettere voti»

Di Caterina Giojelli
12 Maggio 2021
Gli studenti del Manzoni di Milano protestano: «Basta voti, pretendiamo che in presenza si socializzi». E gli adulti applaudono
Scuola, troppe verifiche dopo la Dad, gli studenti occpano il liceo Manzoni di Milano

E dunque la mattina del 10 maggio, invece di entrare in classe, gli studenti del liceo Manzoni di Milano hanno occupato il cortile della scuola «per protestare contro le condizioni che si trovano ad affrontare studenti e studentesse al rientro. L’unica prospettiva che ci viene proposta è quella di una scuola utile solo a mettere voti, rimandare, mettere note e bocciare, noi non ci stiamo più».

I compagni del Collettivo Politico Manzoni lo avevano fatto anche il 12 gennaio, occupare la scuola per rivendicare il ritorno in presenza, seguiti a staffetta da un’altra dozzina di istituti. Ma una volta rientrati «tutti noi ci siamo ritrovati a dover sostenere un fittissimo e insostenibile calendario di interrogazioni e verifiche. Pretendiamo che in presenza ci si confronti e si socializzi, non che il tempo venga sprecato a mettere voti», riporta Repubblica.

Pretendiamo? Tempo sprecato?

«No alla pressione angosciante»

La mattina del 10 maggio la facciata del liceo Manzoni si è riempita di striscioni: “Didattica a distanza per bocciarci in presenza”, “Non siamo sfaticati, siamo affaticati”, “Recuperare vite, non voti”. Dopo le assemblee i ragazzi hanno organizzato un “laboratorio di confronto”, a tema famiglia, eutanasia, polizia e politically correct, e discusso “La scuola che vogliamo”, «pubblica, laica e solidale».

Mentre Milano “okkupava”, a Roma si “alleggeriva il carico”: i presidi dei licei Tasso, Mamiani e Virgilio hanno confermato alla stampa di essersi allineati alle raccomandazioni del ministro dell’istruzione Bianchi (che ha invitato i docenti a tenere conto «dell’eccezionalità della situazione»), diminuendo il numero delle verifiche necessarie per la valutazione, da 3 a 2 a seconda delle discipline. Un passo “dovuto” per gli studenti – «non possiamo vivere sotto una pressione angosciante l’ultimo mese di scuola» -, affatto contenti: «Le verifiche si accavalleranno», «continuiamo ad avere compiti nella stessa settimana».

«No alle verifiche a raffica»

Ad argomentare il “No alle verifiche a raffica” ci aveva del resto già pensato un ripresissimo articolo di Chiara Saraceno su Repubblica alla vigilia del “rientro” con didattica mista (dad e presenza) dei ragazzi delle superiori:

«Ma si faccia in modo che la didattica in presenza non si riduca a verifiche a raffica e a corse a finire il programma. Che gli insegnanti si prendano il tempo per ascoltare i loro studenti, per riflettere con loro sull’esperienza di questi mesi, magari anche per fare con loro attività che sono venute del tutto meno in questo lungo anno: laboratori, lavori di gruppo, visite a un museo, incontri con artisti o con persone che possono aiutare la comunicazione e l’auto-riflessione. Non sarà tempo perso, al contrario».

«Non è il momento di numeri e voti»

Artisti e auto-riflessione dunque. Applausi agli studenti del Manzoni che «almeno orientano il disagio all’esterno, e non su se stessi come fanno tanti altri» sono poi arrivati dallo psicologo Matteo Lancini intervistato dal Corriere:

«Chi riesce a protestare, come gli studenti del Manzoni, assume un atteggiamento costruttivo: tanto più che proprio quelli del Manzoni sono gli studenti che occupavano qualche mese fa per rientrare a scuola il prima possibile. Ma chi per caratteristiche proprie, per fragilità personali, non riesce a esprimere le difficoltà, può rivolgere l’attacco a sé: autolesionismo, tentativi di suicidio, sono esplosi. È il frutto di una delusione davanti alla possibilità di vedere degli adulti che invece di cogliere le disponibilità individuali, vanno in direzione di contribuire ad una situazione di stress. E il rischio di veder sparire questi ragazzi dal radar è enorme».

Secondo lo psicologo la riapertura doveva essere «un momento straordinario di incontro, e non un momento di recupero, di numeri e di voti», «abbiamo sistemi didattici formativi che funzionano in base alla colpa, e invece l’adolescente odierno va coinvolto attraverso modelli di cooptazione. Bisognerebbe valutare le competenze e non le conoscenze», «la scuola dovrebbe essere il baricentro, il focus centrale della crescita, il luogo dove si costruisce il futuro».

La scuola della generazione Dad

Ecco i frutti della generazione Dad, o della scuola come surrogato: il tempo di compiti e interrogazioni in presenza diventa “tempo sprecato”, quello dello sciopero delle lezioni un “momento costruttivo”. Ora gli esperti ci spiegano che dietro al “sovraccarico” scolastico c’è il retro pensiero adulto che i ragazzi si siano dati alla pacchia per un anno. E che è giusto tenere conto del loro disagio tornati a scuola (del resto in molti avevano auspicato “qualcosa di simile in Italia” quando Macron annunciò la psicoterapia di Stato gratuita agli studenti francesi depressi). La domanda allora è: anche quest’anno che si fa, un’altra moratoria sulle valutazioni?

Lo scorso anno la scuola si concludeva senza bocciature: non si è bocciato perché non si è potuto valutare. Un fatto, come scrivevamo qui, educativamente devastante: certo, c’entrava la fifa blu dei ricorsi al Tar ma anche l’utilizzo della pandemia quale scusa presentabile per non rischiare un giudizio sul percorso scolastico di uno studente. «Non vogliamo che l’esame di Stato sia un motivo di stress. Non vogliamo che diventi una corsa al massacro»: non lo dicono oggi gli studenti del Manzoni, lo diceva l’allora ministro Fioramonti nel novembre 2019 quando non c’era il Covid a medicalizzare il disagio degli studenti o a trasformare la scuola in apprendimento modello Cepu.

Il ministero di John Lennon

Nessuno sostiene che uno studente sia solo un numero, un voto. Ma è difficile anche sostenere che l’espulsione o la riduzione delle valutazioni segni una “riscossa dell’umano” dopo un anno passato a sacrificare i ragazzi al lockdown come destino e decenni a ridurre la scuola a formalità, burocrazia o laboratorio di una pedagogia democratica dove il sistema di valutazione cambia di continuo.

«Volete farci andare a scuola in estate? Ma la scuola è nostra e DECIDIAMO NOI», è il primo dei volantini di Unione degli Studenti sul “Piano scuola estate 2021” varato dal Ministero dell’Istruzione: 510 milioni di euro per dedicare su base volontaria i mesi estivi al rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari, relazionali e sociali, con tanto di citazione, proprio in merito al capitolo “valutazione”, da Beautiful Boy (Darling Boy): «L’apprendimento non consegue necessariamente da un insegnamento formale. Per intenderci, potremmo utilizzare un famoso verso di John Lennon: “La vita è ciò che ci accade mentre facciamo altro”. Anche molta parte dei nostri apprendimenti avvengono in questo modo».

Ovviamente «No alla scuola estiva»

Risultato? «Questa storia di aprire le scuole in estate è come dire a studenti e docenti: vi siete riposati fino ad ora, adesso dovete recuperare», ha commentato a Fanpage Rete Studenti. Secondo il sondaggio di Skuola.net, che ha raggiunto seimila studenti di scuole medie e superiori, 8 studenti su 10 non hanno alcuna intenzione di partecipare al Piano, appoggiati da 7 genitori su 10 contrari all’apertura estiva della scuola. Secondo quello di Orizzonte Scuola (oltre 5 mila studenti raggiunti), più del 71 per cento non parteciperà. Stando al sondaggio promosso da Tecnica della scuola (a cui hanno partecipato circa 4.500 persone), l’87,7 per cento dei docenti non si candiderà a svolgere lezioni o attività formative, il 69 per cento dei genitori non ci manderà i figli, l’81,2 per cento degli studenti non parteciperà. E perché dovrebbero?

In questa corsa alla compensazione di un anno di lockdown, tra la proposta di una summer school e il lisciare il pelo agli studenti, i grandi assenti restano gli adulti. Adulti col coraggio di fare gli adulti, a casa, a scuola, sui giornali e al ministero, liberi dal retro pensiero sui ragazzi fancazzisti ma anche dal senso di colpa per averli chiusi in camera per un anno. Smettendo di giudicarli, il più commesso e promosso dei peccati.

Foto Ansa

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