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Ai ragazzi serve il coraggio della propria vita, non la psicoterapia di Stato

Figli divorati da lockdown e tecnologia, adulti che hanno ridotto l’amore a coccola e competenza. Non servono specialisti, ma genitori che riempiano la realtà di senso, spiega la psicologa Vittoria Maioli Sanese

Caterina Giojelli
27/04/2021 - 2:00
Scuola
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Emmanuel Macron ha annunciato che lo Stato pagherà 10 visite dallo psicologo ai bimbi e adolescenti francesi dai 3 ai 17 anni depressi, in crisi, stressati dai lockdown. Un rimborso forfettario di un ciclo di sedute prescritte dal medico curante per affrontare quello che il presidente francese ha definito «un problema sanitario che si aggiunge all’epidemia»: «Ma come si fa a stabilire a priori di cosa hanno bisogno i ragazzi? Di dieci sedute gratis? È innegabile che i ragazzi abbiano dato segnali di grande fragilità, ma perché non passare attraverso il supporto ai genitori? Dai 3 fino ai 10/11 anni del bambino sono loro che hanno più “bisogno” di essere aiutati a capire il bisogno dei propri figli e come muoversi. Stabilire a priori che “quello” è il bisogno e “quella” è la risposta – disattendendo tra l’altro tutta la conoscenza di ciascun bisogno, la dinamica della domanda e della risposta che deve funzionare rispetto a ciascuna persona – mi pare una violenza insensata».

Una voce vivaddio fuori dal coro, quella di Vittoria Maioli Sanese: la brava psicologa della coppia e della famiglia parla a Tempi di coraggio e genitorialità, nessuna medicalizzazione del bisogno o delega facile a figure terze o generici appelli allo specialista per “gestire lo stress e gli effetti della pandemia” con cui tanti editorialisti nostrani hanno euforicamente salutato la decisione di Macron auspicando “qualcosa di simile” anche in Italia.

Cosa è successo a questi ragazzi, i grandi sacrificati della pandemia? Prima li chiudiamo in casa e poi li mandiamo dallo psicologo?

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Credo che la pandemia, con le sue chiusure, i lockdown, abbia fatto emergere potentemente la fragilità in cui i nostri ragazzi vivevano immersi. Una fragilità che era molto mascherata, la fragilità di un’autocoscienza, di saper vivere col coraggio della propria vita, la fragilità delle proprie idee. Non solo i ragazzi, anche noi adulti: la pandemia ha rivelato che vivevamo dentro impalcature che ci tenevano in piedi e che non ci facevano cadere. E che ora sono saltate, probabilmente anche la scuola era una impalcatura per molte famiglie e per molti ragazzi. Ed è emersa la fragilità.

Molti in questi mesi hanno parlato di “coraggio”, “occorre coraggio”.

Ma se non hai educato al coraggio, bensì hai educato alla protezione, alla sicurezza totale, come potrebbe emergere il coraggio? Se hai educato alla risposta totale ad ogni bisogno – bisogno della palestra, dell’aperitivo, di ballare – come fanno i ragazzi a stare senza? Come fanno se sono stati educati fin dalla nascita a pensare che quei bisogni erano importanti per esistere, per essere qualcuno? Non è venuta a galla solo la fragilità, certo, si incomincia a intravedere qualche risorsa, qualche creatività potente anche sul piano educativo e della famiglia, ma direi che la fragilità resta l’esperienza prevalente fra i ragazzi. Anche tra gli adulti, ma i ragazzi sono stati indubbiamente molto sacrificati, complice anche una scuola che non si è dimostrata all’altezza dell’emergenza. Non parlo di riorganizzare spazi e funzionamento delle lezioni. Parlo di un aspetto della formazione che è stato assolutamente sacrificato insieme ai ragazzi, quello della stima dell’umano.

Cosa intende per stima dell’umano?

Tra tanti genitori, insegnanti e ragazzi non c’è stima sull’uomo, la fiducia che da dentro di noi possa nascere una riscossa, una risorsa: ci si aspetta che il supporto alla nostra fragilità arrivi dall’esterno. Non solo supporto in denaro, ma in regole, norme, condizioni, indicazioni per ricostruire. Come se l’umano fosse solo un passivo esecutore.

Anche la morte è diventata “spiegabile” solo come il fallimento di un sistema sanitario. C’è qualcosa che l’ha colpita in questi mesi rispetto a questo approccio da passivi fruitori/esecutori del vivere?

Mi ha colpito l’assenza di strumenti da parte dei genitori: l’altro giorno una insegnante di seconda media raccontava di essere molto preoccupata per la sua classe, i ragazzi erano sempre più assenti, scettici, ironici, come se nulla potesse più interessarli. Si è scoperto che avevano passato le ultime settimane a scambiarsi siti porno, immagini e informazioni scaricate da mezzi tecnologici, gli stessi su cui si erano rassegnati a vivere ogni surrogato delle relazioni umane: scuola, compiti, ginnastica, catechismo, giochi. Per ogni rapporto o relazione oggi esiste una app. Ma a questa sostituzione molto forte della relazione che ci sembra “normale” oggi, della vita che deve necessariamente passare per il mezzo tecnologico, non fa seguito una altrettanto forte risposta di genitori e insegnanti, nessuno ha il coraggio e la forza di dire ai propri figli o alunni che non è questa la vita. E torniamo ancora una volta al coraggio e al nocciolo della questione: gli adulti temono la reazione dei ragazzi. La temono moltissimo.

Ma come si fa a mettersi in mezzo tra ragazzi e tecnologia, a recuperare i rudimenti del vivere, cosa è bene e cosa è male?

Prima di tutto gli adulti devono porsi una domanda rispetto a questi nuovi mezzi. Il problema non è la tecnologia o l’uso strumentale di mezzi che ci stanno facilitando la vita e che rappresentano senza dubbio una rivoluzione: il punto serio della vicenda è se tutta la nostra vita trae dalla tecnologia, dalla strumentalità, dall’efficienza il criterio con cui vivere l’umano: se l’umano diventa una questione tecnica.

Non lo è già diventata, dalla procreazione al fine vita?

Sì perché la tecnica è già un po’ diventata il criterio dei rapporti. Ho incontrato persone che si attraggono, si innamorano, si amano, dopo di che il criterio per giudicare il loro amore si riduce alla capacità di condivisione e di realizzazione di progetti, si sposta il senso del rapporto sulla capacità di vivere insieme vacanze, iniziative, performance. Quando ho chiesto a una coppia, «ma che posto ha nel vostro rapporto l’amarsi, l’amore» la risposta è stata «non capiamo cosa lei ci sta chiedendo». Per molti adulti e genitori l’amore diventa esecuzione e rimane sentimento, addirittura a volte scade in mera emozione, rispondono a domande sull’amore dicendo «ci vogliamo tanto bene, tutte le sere ci facciamo le coccole». Le coccole! Come se quella fosse la risposta all’esigenza di amare ed essere amati. Questo mi preoccupa moltissimo.

Perché la preoccupa questa riduzione dell’amore tra genitori rispetto alle fragilità dei figli?

Perché l’amare e l’essere amati non è più percepito come l’essenza dell’essere, come l’essenza della propria identità umana. Quando l’uomo è veramente se stesso? Quando ama ed è amato. Questa definizione dell’uomo oggi è assente. Importa il “fare”, di conseguenza ci si sposta sul piano del “come fare”, delle leggi che consentano di fare tutto. È in questo contesto, di madri e padri timorosi e di amore ridotto a coccola o competenza, che i figli vengono introdotti, fin da piccolissimi, al mondo degli adulti attraverso i mezzi tecnologici. E che sono saltate le barriere generazionali: oggi un diciassettenne è molto più dell’adolescente che “sa tutto lui”, ha un giudizio su tutto, ha ricevuto un addestramento sui comportamenti, ha ricevuto informazioni, se ci pensiamo un certo tipo di scuola negli ultimi anni si è molto spostata sull’addestramento di competenze e informazioni. E il ragazzino che si sente competente e informato vuole porsi al livello dell’adulto, sente di avere gli strumenti per farlo.

Ai ragazzini viene spesso “passato il microfono” dagli adulti. O anche il numero verde: a Firenze gli studenti delle superiori sono diventati tutor anti-covid, vigilano e segnalano i comportamenti dei coetanei.

Sarebbe stato utile farlo verso i bambini più piccoli: tra coetanei il rapporto diventa di inimicizia e non di aiuto. Portare la responsabilità dei più piccoli è educativo, il controllo dei pari è un’altra cosa.

Ma cosa deve dire un genitore a suo figlio quando esce di casa perché non si perda nelle fragilità, nelle regole, nei mezzi tecnologici?

Non è importante la raccomandazione: bisogna guardare il figlio, bisogna verificare che il figlio esca di casa portandosi nel cuore e nella mente il genitore. Questo è il punto. Noi possiamo fare tutte le raccomandazioni del mondo, ma se la nostra raccomandazione rimane “all’esterno”, se rimane una indicazione di comportamento, lui non ci porterà dentro di sé. Se la cura del genitore è stata invece “Io sono accanto a te sempre perché tu cresci figlio, e quindi diventi te stesso ascoltando me”, se il genitore ha avuto la forza e il coraggio della sua presenza – ha espresso la certezza della sua presenza -, allora il figlio lo porterà con sé. Perché quello è un genitore che non ha avuto paura del Covid, non ha avuto paura della dad, non ha avuto paura della realtà cambiata. È un genitore che si è appassionato alla vita, alla conoscenza della vita. Questo è un altro aspetto che mi ha impressionato tantissimo in questi mesi. È come se tutti si muovessero con un’immagine di vita dentro di sé, una vita in cui non doveva esistere la pandemia, la dad, tutto quello che abbiamo vissuto. Come se la vera vita fosse quella che abbiamo immaginato e non la vita che accade. E questo porta a molti lamenti, molte recriminazioni, molti giudizi, molte condanne, molta stanchezza tra i genitori. E non va bene perché la vita, l’esistenza vera, la realtà per definizione è affidata al genitore.

Perché la realtà è affidata ai genitori?

Perché è il genitore che genera. All’adulto è affidato il compito di dare il senso alla realtà che esiste davanti ai nostri occhi, non alla realtà immaginata. Non è “più reale” la vita senza lockdown, è reale la vita che c’è oggi. E dentro questa vita io, genitore, troverò il modo di esprimere, fare emergere ogni relazione, dare senso ai rapporti, agli eventi in questa condizione reale. Se così non fosse mi sarei inventato una vita dove non esiste la morte, non esiste la pandemia, non esiste la fragilità, la dad, l’inadempienza. Questo è ciò che auspico per i nostri ragazzi e per ciascuno di noi, che da questa esperienza così potente possiamo uscire con la certezza che l’unica cosa che conta è vivere la vita reale. Quella che c’è e ci è data, dandone senso. E traendone tanto coraggio da trasmettere anche a ciascuno dei nostri figli.

Foto Ansa

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