Si scrive Mc Donald’s, si legge «ci vediamo al solito posto». Perché ci sono attività che diventano un punto di ritrovo, un simbolo, parte integrante delle abitudini cittadine. È il caso del Mc, che ha aperto i battenti vent’anni fa in Galleria Vittorio Emanuele: una tappa obbligata, seconda solo alle palle del toro su cui i turisti consumano le suole. È un po’ la versione laica e yankee del sagrato del Duomo: affollato a tutte le ore, anche grazie ai tavolini fuori, da scolaresche, coppiette, avvocati in giacca e cravatta, turisti. Ora sotto la Galleria, c’è un’aria da festa finita. Il colosso del fast-food ha infatti perso il bando che assegnava i locali attualmente occupati. Al suo posto arriverà Prada. I dipendenti allargano le braccia: «Siamo ottantadue persone, poi c’è un’impresa esterna, in tutto siamo un centinaio. Non so dove andrò, forse in mezzo a una strada». È uno strano contrasto, quello tra i marmi della Galleria e il vociare ininterrotto che si sente all’interno, tra bambini che invocano le patatine alla paprika, modelle che sorseggiano spremute, famiglie intere che occupano due, tre tavoli.
«Sa quante persone passano, da qui, in un anno? Più di un milione e mezzo». Se al mattino c’è un gran via vai di trentenni che vengono a fare colazione, verso l’ora di pranzo diventa una vera e propria bolgia. «Ma davvero chiudete?» chiede una signora sui sessant’anni, è con i due nipotini. «Che peccato, che peccato». Ambitissimi i tavolini fuori, qui ogni gita che si rispetti trova la sua ora di quiete. Tante le famiglie, perché è soprattutto ai bambini che piace stare qui. Certo, si tratta di junk food ma per una volta si può fare («Mamma, questo panino ha cento calorie, c’è scritto!». «No amore, sono un sacco di più»). Ma ci sono anche gli adolescenti in libera uscita, le ragazze cariche di sacchetti davanti a un milkshake. Tanti entrano solo per sedersi: sanno benissimo che non è obbligatorio ordinare. C’è chi legge o scrive, o aspetta qualcuno. Sembra un ristorante, ma costa poco. Ed è la via di mezzo che piace a tutti, con buona pace dei ristoranti adiacenti. Dove una bruschetta costa 13 euro, una “selezione di salumi italiani” 24 euro. I tavolini perfettamente apparecchiati con i camerieri in livrea e il lampadario di cristallo, sono deserti. C’è solo qualche tedesco che si è azzardato a ordinare un caffè e lo guarda spaventato. Quelli di plasticaccia nera, a pochi metri di distanza, strabordano di umanità.
Di capitalista, qui, c’è davvero poco. Ed è strano pensare alle parole di Luca Gibillini, consigliere di Sel, che si è scagliato contro «una multinazionale che ha rappresentato negli ultimi decenni il modello del fordismo, con evidenza di distruzione del territorio in molte parti del mondo, con condizioni di lavoro difficili». Eppure questo è l’unico angolo del Salotto di Milano accessibile alla modica cifra di un Crispy Bacon. «Non proveremo certo dispiacere per la chiusura» ha detto Sel, ma sono molti quelli a cui questa chiusura dispiacerà eccome.
Il motivo? Lo riassume Carmela Rozza, capogruppo del Pd: «La Galleria non deve essere un luogo esclusivo per chi se lo può permettere. Ha sempre rappresentato, nella storia di Milano, il punto d’incontro tra i milanesi: dal magutt all’imprenditore, dallo spazzacamino all’uomo di cultura. Non possiamo avere una Galleria in cui la famiglia di periferia, di immigrati, di operai, non può sedersi a bere il caffè». E con Sel, come la mettiamo? È una vecchia storia quella tra certa sinistra e Mc Donald’s simbolo delle multinazionali, a volte scandita da vetrine spaccate, altre da semplice boicottaggio. «Sono ideologici. Un’ideologia priva di senso di realtà. E vecchia come il cucco, tra l’altro».