

Per molti è stato uno scossone, una tragedia, specie se ci si immaginava imperituri al comando della nazione, con tutto ciò che questo significava in termini di potere, agi e tricche-ballacche mediatici. Per altri, l’avvento di Meloni rappresenta, almeno in abbrivio, quantomeno una pausa dal combattimento sul ring della politica, quando non della vita, dopo circa undici anni di rospi ingoiati, seppur a norma di legge. Chi ne ha viste (e scritte) tante è sicuramente Pierluigi “Pigi” Battista, già firma di Panorama, La Stampa, vicedirettore del Corriere della Sera e molto altro, oggi opinionista dell’HuffPost.
Di Giorgia Meloni ti chiederò tra poco. Comincerei dalla tua opinione sull’attualità e le prospettive del Terzo Polo. Che mi dici?
Sì, credo che bisogna essere abbastanza capaci di uscire dal “presentismo” e cercare di capire tra cinque, sei, sette mesi cosa potrebbe accadere in quella formazione. Calenda ha fatto una scommessa: tra sei mesi il Governo cade, ma, magari, tra sei mesi succede qualcosa tra loro due. Renzi e Calenda intendo.
Stavo per domandarti proprio se pensi che l’unione tra i due durerà
Se prevalesse la razionalità politica ci sarebbe un immenso spazio politico da occupare, superiore a quell’8 per cento incassato – che pure non è da buttare via – per un vero partito liberaldemocratico che, come sai, manca in Italia da sempre. C’è infatti la destra, la sinistra estrema, c’è il Pd, ma manca un partito liberaldemocratico, che non significa centro in senso stretto ma un partito vero e proprio che si ispiri ai valori della liberaldemocrazia, dell’economia di mercato, dello stato di diritto, per una società moderna e più equilibrata. Questa operazione può essere nullificata da una guerra intestina? Certo, ma spero che non accada anche se mi rendo conto che esistono istinti che vanno tenuti a bada. Se noi pensiamo a cosa era la Democrazia cristiana, dentro c’erano tante componenti, c’era il partito di Andreotti, Moro, De Mita, Forlani, Fanfani, insomma la varietà di posizioni fa parte del discorso. Noi ci siamo abituati in questi ultimi decenni ai partiti personali, ma uno strutturato bene ha le sue correnti, ha sensibilità culturali che convivono, non è che ciascun dirigente dell’allora Dc si facesse il suo partitino quando era in minoranza.
Impensabile e poco onorevole come tendenza all’epoca, no?
Assolutamente. E quindi servono capacità e forza di stare insieme. Se ci sono delle differenze si individuino delle sedi, chiamiamole congressuali, in cui si stabilisce una minoranza e una maggioranza, senza tragedie. Sembrano cose stupefacenti queste, ma non lo sono. Nella tanto vituperata Prima Repubblica nessuno immaginava cose come quelle che abbiamo visto in questi anni. Le minoranze non vengono schiacciate né cacciate.
Veniamo ora a Giorgia Meloni, che te n’è parso fin qui?
Mi sembra di capire che abbia fatto un discorso equilibrato, si è presentata con un profilo conservatore, di destra, ma non eversivo, non piazzaiolo, non estremista. Certo favorita da una debolezza fortissima delle opposizioni. Dopo aver piegato le resistenze di Berlusconi e Salvini, dopo aver conquistato la leadership duramente con una battaglia e dopo aver stroncato anche le riluttanze e l’ansia di spodestamento di Berlusconi, mi pare che abbia conquistato, non solo numericamente ma anche politicamente, una leadership vera. Naturalmente nella navigazione alcune scelte economiche saranno obbligate, vedi il primo provvedimento finanziario di cui si parla, il 75 per cento del quale si annuncia a sostegno del caro energia per aziende e famiglie.
Secondo te questo bagno di realtà intaccherà la sua base di consenso?
No, affatto. Certo nei cinque anni che verranno, o quanti saranno, è ovvio che chi governa sconterà qualche problema sotto questo profilo, ma questo avviene in tutte le democrazie, vedi gli Usa e il classico terrore che i presidenti in carica hanno per le elezioni di Midterm. In Italia, però, è anche vero che di elezioni non ce ne siano alle viste. Quindi Meloni ha davanti a sé una prateria.
Minata ma pur sempre una prateria
Certo, sì, piena di mine. Lei è nella peggiore situazione economica e, contestualmente, nella migliore condizione politica per fare il primo ministro.
Nel grosso dei consensi ottenuti intravvedi una traiettoria o una matrice originaria analoga ai 5S del 2018?
No, i 5S sono uno stato d’animo, mentre Giorgia Meloni viene da una cultura politica che, per quanto possa non piacere a qualcuno, è comunque radicata, fondata, c’è una storia dietro. I 5S si fondano sul vaffanculo. Noterai le differenze. Devo dire, però, che, con tutta la mia disistima per l’attuale leader 5S, Conte sta dando un profilo da sinistra estrema e radicale a un’area abbastanza corposa. Chi ne subirà le conseguenze sarà soprattutto Letta o il Pd.
O quel che sarà
Sì, avere un’unità ora tra le due forze sarà molto complicato. Conte su questo è molto determinato. Pur perdendo la metà dei consensi rispetto al 2018 gli ha dato una nuova identità. Oggi non si può più dire che siano i “grillini”.
Li chiameremo “contini”?
No, sono diventati un partito, un movimento o quello che sia. Conte è un leader che se l’è comunque conquistata, io non avrei scommesso un euro su di lui ma bisogna riconoscerlo, anche se per me si tratta di un impianto totalmente non condiviso, cioè, è un un partito giustizialista, estremista, forcaiolo e pure putiniano. C’è da dire, a tal proposito, che c’è anche questa componente, tieni conto che è il partito che più sostiene la capitolazione di Zelensky. Conte sta addirittura costringendo una parte del Pd a partecipare a una manifestazione cosiddetta per la pace. Il Pd è sballottato da una cosa all’altra: certo, è un partito radicato, ha sindaci, presidenti di Regione, personale politico impegnato, non è che sparisce in un attimo ma la sua irrilevanza politica è sempre più accentuata, stritolata da una destra di comando e una opposizione di sinistra spostata ormai verso Conte, oltre alla insidia di Calenda e Renzi. Come “se move se move”…
Fa guai
No, si fa male, sarà un percorso doloroso.
Mi hai indotto una domanda parlando dei 5 Stelle: hai sentito l’intervento di Scarpinato in Senato?
Provo profonda ripugnanza verso quello che ha detto. Oltretutto dà ragione a chiunque dica che una parte della magistratura è un soggetto politico che si è posto il problema di distruggere il nemico politico.
Non era allora tutta propaganda?
No, era un programma politico. Ha portato una ideologia giudiziaria, ha fatto dietrologia calandola in ambito politico. Quando si dice «pieno rispetto della magistratura» io dico no: rispetto, invece, per quei magistrati che fanno seriamente e liberamente il proprio dovere e lavoro.
Sarà ancora un problema ora, quella stagione è chiusa, finita?
In Italia non si chiude mai niente per cui non si può dire, però certamente un colpo duro l’ha subito. Vedi Carlo Nordio, un magistrato garantista, finalmente, una delle poche cose che mi piacciono moltissimo di questo governo. Diciamo, il giustizialismo ha subito duri colpi ed è un bene per la civiltà di questo paese: la sconfitta di Scarpinato è un bene per la civiltà e lo stato di diritto del nostro Paese. Vorrei che la scrivessi proprio così.
Accontentato
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