Tratto dal n.10/2012 di Tempi
Sabato 25 febbraio. Il pronto soccorso di un ospedale, in Brianza. Fuori c’è improvvisamente una gran luce di primavera. Nel reparto di Osservazione breve intensiva su tante barelle sono stesi i pazienti arrivati da poco, che hanno bisogno di monitoraggio continuo. È un locale grande, chiaro, ordinato. Silenzioso: solo il respiro affannoso di un vecchio, coricato qui accanto. I passi degli infermieri non fanno quasi rumore. Nella quiete i miei occhi vagano e si fermano sui particolari. Linoleum azzurro, pareti azzurre, camici bianchi, camici blu. Delle tende celesti dividono le barelle. Dietro a ciascuna, un malato. Le tende vengono aperte e chiuse dagli infermieri, all’occorrenza, e sembrano tanti sipari su scene di piccoli solitari teatri. Il vecchio qui accanto è arrivato privo di sensi. Entra la figlia, spettinata, affannata. La sua voce ansiosa: «Papà ciao, come stai?». Nessuna risposta. «Papà, mi riconosci? Sono io, la Giovanna». Nessuna risposta. «Come ti senti? Ti fa male qualcosa, papà?». Silenzio. Il vecchio ha occhi azzurri sbalorditi, quasi infantili, assenti. «Papà, mi riconosci? Sono io, la Giovanna. Se non ce la fai a parlare fammi solo sì con la testa. Mi riconosci?». Il vecchio resta immobile. La figlia piange. Un infermiere tira la tenda alle sue spalle. Sipario.
Dalla pediatria l’eco di strilli di bambini – vita nuova, vivace, che scorre nelle vene dell’ospedale. Voci dal Pronto soccorso, dove le lettighe scaricano sempre nuovi pazienti. Vecchi, soprattutto, ottuagenari in pigiama: disorientati, smarriti. Uno è arrivato qui, nella sala dell’Osservazione. È solo; sembra straniero, forse dell’Est. Ha la pelle come cotta da decenni di sole. Che anno è, gli chiedono, che giorno è? Silenzio. Se l’è fatta addosso; da dietro la tenda intuisci che un infermiere pazientemente lo cambia, lo lava, gli mette un pannolone. (Da un capo all’altro della vita, alla fine inermi come neonati).
Un’altra tenda, un uomo ancora giovane, una flebo la cui goccia scorre lentissima. Sembra la misura del tempo, in Osservazione, al di qua della frontiera che divide i sani dai malati. (Qui davvero nel silenzio ogni minuto sembra fermarsi come acqua in uno stagno; ogni ora si dilata pachidermica, opaca, infinita). All’uomo ancora giovane fanno un ecocardiogramma. Sullo schermo l’immagine scura di una cavità che si dilata e si chiude, e il tonfo sordo del battito. Una vertigine al mio, di cuore: dunque noi non saremmo che questo, questa carne, solo questo? Le tende celesti si aprono e si chiudono sui malati muti. E fuori, questa improvvisa, sgargiante, intimidatoria primavera. Andarsene infine a capo chino, assorti; pensando che, se Cristo davvero non è risorto dai morti, siamo soltanto poveri corpi nel nulla.