
Trattativa Stato-mafia, attesa per la sentenza su Mori. Ma un libro lo assolve già: accuse indimostrabili
È attesa per oggi, 17 luglio, la sentenza del lunghissimo processo contro il generale dei carabinieri ed ex numero 1 del Sisde Mario Mori. Dal procedimento – nato con l’imputazione per il generale di aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, accusa smentita da numerosi testi eccellenti – è poi germogliata in aula la tesi della cosiddetta trattativa Stato-mafia, il presunto patto con Cosa nostra stretto da alcuni settori delle istituzioni tra il ’92 e il ’93 per mettere fine alla stagione delle stragi.
Proprio di queste ricostruzioni parla Una lunga trattativa (Chiarelettere, 13 euro), un libro molto documentato uscito nei giorni scorsi e scritto dal giornalista Giovanni Fasanella, già autore tra l’altro di una biografia di Mario Mori stesa a quattro mani con il generale stesso. Il pregio del nuovo lavoro di Fasanella è nelle testimonianze raccolte: oltre a Mori, nel volume parlano anche Francesco Cossiga, Luciano Violante, e l’ex ambasciatore americano a Roma Reginald Bartholomew. Attraverso le loro parole, il cronista ricostruisce i rapporto tra Stato e mafia nel contesto dell’epoca. Ma il suo «non è un libro di storia», dice Fasanella a tempi.it. «È una ricostruzione giornalistica, basata su testimonianze incrociate con informazioni provenienti da fonti archivistiche, bibliografiche e giudiziarie».
“La verità che la magistratura non può accertare”. Perché questo sottotitolo?
Perché la magistratura per sua natura può solo scoprire e punire i colpevoli di reati e non è in grado di ricostruire i contesti storici, culturali, sociali e perfino geopolitici dentro i quali si è sviluppato il fenomeno mafioso. Lo dimostra il caso dell’omicidio di Paolo Borsellino, un processo con 11 condannati definitivi del tutto azzerato perché costruito solo sulle dichiarazioni di un pentito che aveva detto falsità.
Anche il giurista Giovanni Fiandaca recentemente ha espresso forti dubbi sull’impostazione del processo. Cosa ne pensa?
Non voglio intervenire nel merito delle accuse specifiche rivolte ai singoli imputati nei processi palermitani. Ricordo però che nei tre processi contro il generale Mori (quello per la mancata perquisizione del covo di Riina risoltosi in assoluzione, quello per la mancata cattura di Provenzano che si chiude oggi e il terzo che si è già aperto, ndr) fondamentalmente si discute sempre di trattativa Stato-mafia. Dal mio punto di vista va chiarito cosa fu trattato, oltre che con chi o come: perché se si è trattato con la mafia per impedire le stragi mi parrebbe una cosa giusta e non una scelta da valutare nelle aule di tribunale. Il problema è il contesto in cui sono avvenuti i colloqui investigativi con Vito Ciancimino. Se Mori era in contatto con il sindaco mafioso di Palermo per condurlo a collaborare con la giustizia come penso, allora mettere alla sbarra il generale è stato gravissimo. Io conosco Mori, so che si è formato alla scuola di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
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Con questo cosa vuole dire?
Ero giovane cronista a Torino quando Dalla Chiesa arrivò lì per combattere il terrorismo, con metodi borderline che spesso sfociavano nell’intelligence. Operazioni coperte, infiltrati e arresti rimandati per pedinare i terroristi e arrivare a disarticolare l’intera organizzazione. Questo metodo Mori lo ha sintetizzato così: «Non l’uovo oggi o la gallina domani, ma il pollaio il prima possibile». È anche il metodo del Ros, e forse è proprio questo il punto: penso che qualcuno abbia voluto che il generale Mori non arrivasse al pollaio, cioè alle relazioni che la mafia aveva costruito con il potere politico ed economico. Non a caso i problemi di Mori sono iniziati con le indagini “Mafia e appalti” sui legami imprenditoriali di Cosa nostra. Penso che Giovanni Falcone sia morto per quell’inchiesta, mentre Mori è stato neutralizzato in altro modo. Non voglio dire dai magistrati, ma sicuramente da qualcuno ha voluto renderlo innocuo.
Nel libro a quali conclusioni giunge grazie ai documenti e alle testimonianze?
Sono arrivato a due conclusioni sul ’92-’93. La prima è che sicuramente in quegli anni avvenne qualcosa di esagerato intorno al 41 bis: perfino i cappellani penitenziari si mobilitarono per le istanze dei detenuti, compresi i mafiosi, aprendo di fatto un canale di comunicazione con le istituzioni. La seconda conclusione è storica. A partire dallo sbarco degli alleati in Sicilia, nel 1943, fu costruito intorno alla mafia un apparato “militare” per il contrasto al comunismo, in cambio del quale ai boss rimasero le chiavi del “potere” di fatto sull’isola. Ma una volta caduto il muro di Berlino, questo apparato è divenuto troppo ingombrante e fu falcidiato dalle inchieste giudiziarie. Rimasti “orfano” anche dei propri riferimenti politici, i mafiosi vollero lanciare un messaggio.
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