«Nessun aiuto europeo può valere quanto riaprire le imprese»

Di Pietro Piccinini
25 Aprile 2020
Intervista a Lucio Poma, capo economista di Nomisma, dopo il cosiddetto accordo al Consiglio europeo su Recovery fund e misure Ue contro l'emergenza coronavirus

Come prevedibile, i mercati non si sono bevuti l’esultanza (di circostanza) dei capi di governo dell’Ue per il cosiddetto «primo accordo», molto cosiddetto, raggiunto giovedì sera dal Consiglio europeo sul fantomatico Recovery fund. Ma al di là dell’immediata reazione delusa davanti al sostanziale rinvio della più attesa delle misure comunitarie contro l’emergenza coronavirus, la «freddezza delle Borse», per usare un’espressione del Sole 24 Ore, sembra ormai essere una costante davanti a qualunque tipo di sforzo finanziario dei governi per contrastare la recessione galoppante.

Lo conferma Lucio Poma, capo economista di Nomisma, analista capace di interpretare la lingua dei mercati e di tradurne i messaggi in italiano comprensibile ai più. Una dote rara dimostrata a fine marzo in una interessante “fotografia” della crisi in corso, esposta dallo stesso Poma durante il webinar di presentazione del rapporto Nomisma sul mercato immobiliare 2020.

Commentando per Tempi il vertice europeo di giovedì e la conseguente disillusione mostrata dalle Borse, Poma prevede che gli unici tre strumenti effettivamente approvati finora dall’Europa – quelli, per intenderci, concordati dai ministri delle Finanze riuniti nell’Eurogruppo del 9 aprile: il Mes per le spese sanitarie, il Sure per la cassa integrazione e i prestiti della Bei per le piccole imprese – avranno un effetto limitato. Ossia, come scrive Eurointelligence, il pensatoio diretto da Wolfgang Munchau, «non hanno alcun impatto dal punto di vista macroeconomico». L’unica speranza è il Recovery fund, il cosiddetto Fondo per la ricostruzione. Ma a parte il dettaglio che il Fondo è tuttora più buona volontà che progetto, secondo Poma inoltre tutto dipenderà a come quelle eventuali risorse saranno investite dagli Stati beneficiari, tema di cui, tra pretese incontentabili ed esultanze premature, nessuno si sta occupando.

Lucio Poma

Professor Poma, i mercati non hanno reagito bene al mezzo accordo europeo di giovedì.
In realtà i mercati si stanno un po’ “immunizzando” rispetto a queste cose.

Che cosa intende dire?
Poche settimane fa negli Stati Uniti è successa una cosa ben più clamorosa: Washington ha stanziato 2.000 miliardi di dollari per soccorrere l’economia. Una cifra enorme, più alta del Pil italiano. Consideri che le tre manovre Ue sommate insieme ammontano a 500 miliardi di euro, e con il Fondo per la ricostruzione in teoria potranno lambire i 1.000, quando una finanziaria italiana si aggira intorno ai 40 miliardi. Insomma stiamo parlando di cifre mostruose. E come ha risposto la Borsa di Wall Street ai 2.000 miliardi di Trump? È schizzata in alto, ma i giorni successivi si è riallineata tranquillamente.

Morale?
Oggi i governi non hanno a disposizione manovre in grado di fare risollevare le aspettative delle Borse nel medio termine. Quella italiana nel giro di un paio di mesi ha perso il 40 per cento.

I governi non hanno più armi?
Guardi, un po’ di tempo fa la Fed americana ha cominciato a svalutare il tasso di interesse. Lo ha svalutato per 14 volte a botte dello 0,25%. Alla quarta volta la manovra non aveva più nessun effetto sugli operatori. Adesso ha abbattuto il tasso di un intero punto percentuale in un colpo solo, e portandolo dall’1 per cento a 0, mica dal 9 all’8 per cento. Vada a vedere la reazione della Borsa: due giorni in salita e poi di nuovo da capo. Quel punto era tutto ciò che era rimasto alla Fed, ha sparato l’ultimo colpo. Ma non funziona.

Non funziona perché si è inceppata la finanza in quanto tale?
Non funziona perché i meccanismi di trasmissione tra il consumo, il risparmio, gli investimenti e l’economia reale non sono più quelli classici.

Si può spiegare meglio?
Da una parte, per effetto dell’emergenza coronavirus, c’è ora un legame tra economia finanziaria ed economia reale che non avevamo mai visto. Prima invece la Borsa seguiva altre logiche: se una società aveva un bilancio negativo ma tutti compravano quelle azioni, le azioni salivano indipendentemente dal bilancio. Dall’altra parte, poi, la Borsa è preda di “momenti di panico” che sono completamente scollegati da qualsiasi legge economica. Il tema sono le aspettative.

Le aspettative?
Provo a spiegarmi con una metafora. In una piazza silenziosa e pacifica piena di persone tutte sedute composte in silenzio a leggere il giornale, lei può ben sperare di attirare l’attenzione mettendosi a lanciare qualche segnale. Ma se tutte quelle persone iniziassero a correre alla rinfusa nelle direzioni più disparate, è quasi impossibile che i suoi segnali possano funzionare. E poi certi segnali sono armi a doppio taglio.

Perché?
Un’operazione straordinaria da 2.000 miliardi di dollari per un verso è una grande mano tesa alle imprese, ma significa anche che l’economia è alla frutta. Lei comprerebbe azioni sapendo che l’economia è in ginocchio?

Ci vuole coraggio.
La Borsa rimbalza per l’euforia dell’annuncio, ma dopo un giorno o due la gente penserà: accidenti, se la stanno vedendo davvero brutta.

E si butta sull’oro.
Oppure attende, nasconde i soldi sotto il materasso.

Perché dice che in alcuni comparti la finanza e l’economia reale sono tornate ad avvicinarsi?
Perché nel crollo generale della Borsa le compagnie aeree, per esempio, non hanno pagato solo l’effetto panico, ma anche la situazione dichiarata da EasyJet, che già un mese fa in pratica diceva: se le cose vanno avanti così, ancora pochi mesi e saltiamo per aria. Oppure pensi alle grandi catene di ristoranti. Anche se l’Europa annunciasse una colossale azione di sostegno per tutte le imprese, lei comprerebbe azioni di un ristorante adesso?

Qualche dubbio lo avrei.
Le comprerà quando sarà ripristinato il regime normale, ma quanto impiegheranno i ristoranti a tornare a un regime normale, tra misure igieniche, distanziamento, conseguente riduzione dei coperti? Un locale che serviva 300 clienti ne dovrà servire 80: che margine avrà? Alcuni comparti stanno soffrendo in maniera indicibile. Un conto è l’ufficio che fa fatica e con i dipendenti a casa in smart working deve accontentarsi di produrre a ritmi ridotti. Tutt’altro conto sono i bar: i bar sono chiusi. Punto.

Tornando a Bruxelles, che cosa si aspettano i mercati dall’Ue?
La speranza che possono dare le misure finanziare dell’Europa non è sufficiente a far risalire le Borse con convinzione. Le Borse aspettano molto di più la riapertura delle imprese.

Qualunque cosa faccia l’Europa, non servirà finché non finirà il lockdown?
Le racconto un fatto importante, una elaborazione che ho seguito personalmente per Nomisma. Abbiamo calcolato l’impatto sul nostro export di una flessione del Pil tedesco di 7 punti (quanto stimato dal Fmi): noi perderemmo 11 miliardi di euro. Sottolineo: se il Pil tedesco varia di 7 punti, il nostro export perde o guadagna il 19 per cento (18,7). Sono dimensioni che danno l’idea di quanto le nostre nazioni siano intimamente connesse, ben oltre quel che si crede.

Questo cosa suggerisce all’Europa?
Che l’Europa non deve accontentarsi di trovare un accordo sui soldi da spendere per aiutare l’economia. L’emergenza coronavirus ha evidenziato una trama fittissima di rapporti produttivi. Non a caso a inizio aprile gli industriali tedeschi hanno scritto alla nostra Confindustria: abbiamo necessità che voi riapriate. E non lo dicono per compassione, ma perché se le imprese italiane non ripartono, le imprese tedesche non riescono a completare i loro prodotti.

Ma tutti dicono: le Borse hanno chiuso in rosso perché speravano di vedere più coraggio sul Fondo per la ricostruzione.
Mi sembra difficile che il Fondo per la ricostruzioni parta davvero. Ma il punto non è appena che i mercati non ci credono. Se invece di annunciare un accordo finanziario il governo avesse dato il via libera alla riapertura delle imprese italiane, allora sì che le Borse sarebbero ripartite. Non solo quella italiana: quelle europee. C’è voglia, bisogno, necessità di recuperare una certa normalità.

Insomma, basta annunci di misure straordinarie, si torni a lavorare.
Gli annunci straordinari hanno appunto un carattere di straordinarietà. E nell’emergenza la Borsa si muove unicamente in maniera speculativa. Cioè a brevissimo termine: oggi si compra, dopodomani si rivende. Per fare ripartire la Borsa davvero, c’è bisogno di un ritorno alla normalità. Questo glielo garantisco.

Ma secondo lei il Fondo per la ricostruzione servirebbe?
A differenza delle tre misure approvate dall’Eurogruppo, almeno non sarebbe soltanto un cerotto.

Aiuterebbe la ripartenza dell’economia e delle Borse?
Permetterebbe di fare una cosa politicamente molto difficile.

Quale?
Si ricordi che il nostro paese era in recessione già prima dell’emergenza coronavirus. Il 2019 si è chiuso con il Pil a -0,3 per cento. Gli Stati Uniti, che hanno chiuso l’anno a +2,3 per cento, o la Cina che ha chiuso a +6, possono trattare l’emergenza come un temporale: mettiamo le pezze e torniamo a vivere. Ma noi eravamo già sotto terra, anche se mettiamo le pezze restiamo sotto terra. Prima della pandemia chiudevano già 100 piccole imprese al giorno in Italia. Un prezzo alto da pagare per il paese, certo, ma almeno con la prospettiva di avanzare nella transizione tecnologica all’industria 4.0. Ecco, temo che adesso anche questo passaggio si fermerà. Perché gli aiuti finanziari, giustamente, andranno ai più deboli, mantenendo a galla attività produttive che non hanno più senso di esistere.

Lei spera invece che il Fondo per la ricostruzione possa rimettere le imprese italiane su questa rotta?
Se dovessi gestire io le risorse del Fondo, le indirizzerei su precisi obiettivi, orientati da politiche industriali: li destinerei a chi investe in determinate aree e innovazioni, non a chi produce secondo logiche di 100 anni fa. Non voglio fare il modernista, non lo sono. Ricordo però che i cinesi in un attimo hanno messo sotto controllo il virus impiegando intelligenza artificiale e big data con applicazioni realizzate dai loro colossi industriali. In Europa esistono grandi gruppi in grado di fare lo stesso in quattro giorni? Non credo proprio. Ne hanno gli americani oltre ai cinesi, gli europei no. Idem per il 5G.

Nella sua relazione sulla crisi lei ha sostenuto che è probabile che andremo incontro alla deflazione.
Certo, ho detto: vi posso assicurare poche cose riguardo a questa crisi, e una di queste è la deflazione. Due giorni fa il Wti, il prezzo del petrolio in America, è andato in negativo per la prima volta in 120 anni.

Deflazione è peggio che inflazione?
Peggio, sì, perché quando c’è deflazione le persone rimandano tutti i consumi di lungo periodo. Lei comprerebbe un’auto da 20 mila euro sapendo che fra sei mesi gliela offriranno a 18 mila? Pensi agli immobili quando è scoppiata la bolla speculativa: i prezzi sono scesi eppure nessuno comprava, aspettando che scendessero ancora. Il fatto è che così i prezzi continuano a scendere davvero.

E con i prezzi scendono i salari?
Di certo si riduce la marginalità delle imprese, quindi gli investimenti, quindi la ricerca e sviluppo, quindi la produttività e il sistema nel suo complesso. I giapponesi sono in deflazione da 8 anni e non riescono a uscirne.

Foto Ansa

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