Lucien Israel: «Scaricare il malato è eutanasia»

Di Rodolfo Casadei
28 Settembre 2011
Pubblichiamo un'intervista apparsa su Tempi 7/2009 al grande luminare francese dell'oncologia. Ecco come un agnostico smonta la truffa della dolce morte e del testamento biologico.

«Ho visto più volte arrivare in ospedale malati in condizioni talmente gravi da sprofondare in uno stato di semi-coma. E quando li tiravamo fuori da questo stato con una rianimazione adeguata mi dicevano: “Quando mi dimette? Vorrei andare qualche giorno in Costa Azzurra per riprendermi”. Pensando a questi pazienti, mi dico che se fossi stato autorizzato da un “testamento” scritto, trovato per caso nei loro portafogli, ad abbreviare attivamente la loro vita mentre erano in semi-coma avrei commesso un vero e proprio crimine, anche se fossi stato incoraggiato dalla famiglia e dalla legge! Per fortuna l’attuale legislazione francese non riconosce la validità dei “testamenti di vita” che, fosse per me, definirei piuttosto testamenti di morte». Alla bella età di 83 anni Lucien Israel continua a portare nel dibattito su eutanasia e testamento biologico tutto il peso della sua esperienza e della sua lucidità, insensibile alle pressioni e alle false premesse della cultura dominante. «I rarissimi malati che, spontaneamente, mi hanno chiesto di aiutarli a morire se le cose si fossero complicate non hanno rinnovato la loro richiesta nel momento in cui questa poteva essere soddisfatta. Altro che autodeterminazione: per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di una malato grave o in fase terminale». Questo pneumologo francese di famiglia israelita (lui non è praticante) che ha deciso di diventare oncologo dopo alcune esperienze terapeutiche con malati di cancro presenti nel suo reparto, dal 2007 è membro e presidente dell’Accademia nazionale di Scienze morali e politiche (la stessa in cui fu cooptato Jerome Lejeune) e dallo stesso anno è anche alla guida dell’Unione Nazionale Interuniversitaria. A causa dell’impianto burocratico della legislazione sanitaria francese è invece già stato allontanato da tempo dalle responsabilità ospedaliere, dopo che per oltre vent’anni è stato direttore del reparto di oncologia dell’ospedale Avicenne di Bobigny e ha anche guidato la clinica universitaria di oncologia all’università di Paris-Nord. Non ha mai preso bene la cosa: «Ho diretto un reparto ospedaliero e un laboratorio di ricerca. Avevo contatti in tutto il mondo. E un bel giorno sono stato mandato in pensione. Negli Stati Uniti un medico resta al suo posto fin quando ha degli studenti e dei malati. Ma non in Francia. Negli Stati Uniti dire a un medico o a chiunque eserciti una professione che è troppo vecchio per lavorare è considerato un atto discriminatorio. In Francia a sessant’anni ci si libera di un professionista proprio quando è entrato in possesso di un sapere e di un patrimonio di esperienze che sarebbero immensamente utili alla società».

A consolidare le convinzioni antieutanasiste di Israel ha contribuito un episodio accaduto un po’ di anni fa, quando era ancora primario ospedaliero.«Un giorno un nuovo malato è arrivato nel mio reparto, e quando l’ho visitato ho scoperto che aveva un cancro allo stomaco. Mi ha detto: “Signore, mi faccia morire”. Allora gli ho risposto: “Ascolti, mi dispiace ma io non faccio assolutamente questo, noi siamo qui per curarvi”. Mi ha replicato: “Lei è un vigliacco”. “Forse è così”, ho ribattuto, “ma qui l’eutanasia non è mai stata fatta, siamo a vostra disposizione per farvi vivere”. Quando sono tornato a casa la sera ho scoperto che aveva telefonato a mia moglie, perché lui era stato il capo della sua cellula al tempo della Resistenza contro l’occupazione nazista. Le aveva chiesto di intercedere presso di me. Lei mi disse: “Per una volta sola potresti praticare su di lui l’eutanasia: è un uomo straordinario, un eroe”. “È totalmente escluso che io faccia questo”, le ho risposto. A causa di questa mia reazione sono stato maltrattato per alcun settimane sia la mattina quando andavo a visitare il malato in ospedale che la sera quando tornavo a casa da mia moglie. Le infermiere e tutto il personale lo trattavano nel migliore dei modi, ma lui non cambiava atteggiamento. Allora un giorno gli ho consegnato una boccetta contenente un liquido, e gli ho detto: «Ecco, se proprio vuole prenda questa». Lui mi ha guardato con aria dubbiosa: «È soltanto dell’acqua, vero?». «Forse», gli ho risposto. «Per scoprirlo dovrà usarla». Infatti era veramente acqua. Ma quel che è successo è che dopo qualche settimana quell’uomo è morto, e abbiamo ritrovato la boccetta intatta nel suo comodino. Si era convinto ad affrontare la malattia. Ma il caso di malati che mi hanno chiesto di aiutarli a morire è rarissimo, più spesso invece mi è successo che le famiglie di malati gravi si rivolgessero a me dicendo che non riuscivano più a sopportare la richiesta di eutanasia che gli faceva il loro congiunto. Allora io gli rispondevo: “Un medico non può uccidere un suo simile. Fa ciò che è necessario per dare sollievo ai suoi dolori fisici e alle sue difficoltà psicologiche attraverso le cure, la gentilezza e tutto ciò che gli fa percepire che c’è qualcuno intorno a lui che si occupa di lui. Ma è fuori questione che io o uno dei miei allievi accettiamo di uccidere un nostro simile”. Nel mio reparto anche tutti gli infermieri condividevano questo punto di vista, si prendevano cura di tutti i pazienti e vegliavano che non si producessero casi di eutanasia».

Israel è consapevole che la tentazione dell’eutanasia è presente anche fra i medici, e questa sembra essere la cosa che lo fa soffrire di più. «È fuori questione attentare alla vita di un essere umano quando si è medici. Siamo là per dargli allo stesso tempo il massimo di comfort, di aiuto e di amicizia. Un malato ma anche una persona sana non deve mai poter immaginare che dei medici sarebbero capaci di dargli la morte. Una volta ho letto un testo di un cappellano ospedaliero che ha udito un primario uscire da una camera di un reparto dicendo ai collaboratori che lo circondavano: “Quello là domani non lo voglio più vedere”. Era un modo per istigarli a praticare l’eutanasia senza assumersi lui responsabilità. Questa è un cosa gravissima, ed è assurdo e pericoloso tollerare situazioni del genere. È il contrario dell’immagine di sè che un medico dovrebbe dare, e cioè quella di una persona che fa tutto il possibile per i malati anche facendosi carico dei casi disperati per cercare di attenuare i dolori e dare loro la compassione che un essere umano merita. Un medico che non si attenga a queste raccomandazioni, non è degno di esercitare la sua professione».

«Quei medici che approvano l’eutanasia lo fanno perché non possono sopportare un essere che soffre e perché non hanno ricevuto l’insegnamento spirituale che conviene alla medicina, e si dicono: “Che muoia domani o che muoia fra sei settimane non ha nessuna importanza, io preferisco finirla adesso”. Non si può offrire questa immagine del medico agli studenti di medicina, o la medicina diventerà qualcosa di terrible. È assolutamente indispensabile manifestare il rispetto totale della vita umana, anche perché attualmente siamo in grado di placare tutte le manifestazioni dolorose, e di conseguenza gli esseri di cui ci occupiamo non soffrono insopportabilmente; al contrario, ricevono tutti i giorni un aiuto attraverso la gentilezza degli infermieri e dei medici. Nella misura in cui ci occupiamo dei pazienti in questo modo, non ci chiedono l’eutanasia».

C’è poi la questione delle possibilità di cura efficace e persino di guarigione che la scelta dell’eutanasia lascia completamente cadere: «Con la velocità con cui escono nuovi farmaci, ci sono persone che devono la vita al fatto che si è tenuta a bada la loro malattia, anche quando non la si sapeva guarire. Per un malato guadagnare sei mesi può voler dire guadagnare molto di più. È possibile che qualcuno, a cui oggi si “concedono” sei mesi di vita, possa beneficiare, prima che scada tale tempo, di una cura che gli darà altri quattro anni di vita, e poi, nel giro di due-tre anni, di una cura che gliene darà altri dieci».

Ma anche quando la prospettiva della guarigione è illusoria, il prendersi cura del malato vicino a morire anzichè sopprimerlo è, secondo Israel, una missione fondamentale del medico: «Anni di faccia a faccia con la malattia mi hanno insegnato che quella di guarire non è l’unica richiesta del malato grave. Talvolta dentro di sè egli sa che questo non è possibile, ma ha bisogno di incontrare degli esseri umani che riconoscono, attraverso le loro azioni di cura, il valore sacro della sua vita. Se sente che siamo al suo fianco, il malato riesce anche ad accettare il fatto che la vita umana è limitata e a fare la pace col suo destino. Ma non lo accetta se non c’è qualcuno che si dedica a lui, e ha ragione».

Lucien Israel è arrivato ad affermare che l’eutanasia infrange il vincolo sociale e la solidarietà fra le generazioni. «Sì, perché rischiamo che la gente possa pensare che il giorno in cui starà male ci sarà qualcuno che troverà normale ucciderli; invece bisogna che ognuno di noi sappia che non soffrirà, perché si farà tutto quello che si può perché non soffra; bisogna che sappia che sarà considerato essere umano a parte intera, qualunque sia la sua condizione patologica, e che i medici sono stati formati alla dedizione al malato, per impedire la sofferenza e manifestare la compassione». Più volte nelle interviste il nostro oncologo ha affermato che in Francia vive un certo numero di olandesi anziani che si sono trasferiti per paura di essere sottoposti all’eutanasia se fossero restati nel loro paese. «Lo confermo. È qualcosa che va avanti già da parecchio tempo, e io dovevo assolutamente dirlo. In Olanda un medico ha il diritto di praticare l’eutanasia, può farlo in molte circostanze, basta che il malato manifesti distacco dalla vita e che lui non abbia fiducia nell’esito positivo del trattamento o in un miglioramento della qualità della vita del paziente. E questo medico si considera utile alla società, perché dice a se stesso: “Io uccido le persone, ma è solo per non farle soffrire”. Ma questa non è l’immagine di sè che un medico deve proiettare nella società, e nemmeno nella sua stessa anima. Ripeto: oggi è possibile placare tutte le sofferenze, non c’è nessuna ragione di invocare l’eutanasia per questa ragione. Si priva di ogni dignità la professione medica se si accetta il principio che un medico ha il diritto di uccidere qualcuno».

Saputo che in Italia c’è chi afferma che bisogna introdurre l’eutanasia nella legislazione in nome della laicità dello Stato, perché altrimenti l’Italia diventerebbe “una provincia vaticana”, l’ebreo agnostico reagisce così. «Senta, anche al di fuori di una qualunque ottica spirituale, un medico non è autorizzato a togliere la vita a qualcuno. Per quel che mi riguarda, la mia posizione non dipende da considerazioni religiose: un medico, chiunque egli sia, agnostico o credente, non deve riconoscersi il diritto di togliere la vita a qualcuno, quando in realtà è in grado di alleviare le sue sofferenze».

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