Libertà e potere. Intervista a Camillo Ruini
Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
“Il potere della libertà” è il titolo scelto dall’associazione Esserci per la sua rassegna di incontri svoltasi in parte online in parte in presenza a Milano a metà settembre. Il cardinale Camillo Ruini, aprendoci le porte del suo appartamento romano, ci accoglie e si sottopone di buon grado alle nostre domande. A lui spetta il compito di aprire il ciclo di incontri mettendo a fuoco i due termini della questione: cos’è la libertà e cos’è il potere.
Ruini ha tra le mani Tempi e ha letto l’articolo che Giancarlo Cesana ha scritto sul precedente numero, a mo’ di presentazione dell’iniziativa. Lì, il professore ha fatto notare che oggigiorno i due termini assumono un valore tutto positivo in un caso, la libertà, che è sempre libertà di fare ciò che si vuole, di autodeterminarsi; e tutto negativo, nell’altro, perché oggi il potere è spesso presentato come sporco e corrotto. Come stanno insieme le due cose? Possono stare insieme? Scriveva Cesana: «Amare la libertà significa amare gli uomini che aderendo a Dio, il vero potere, si sono resi liberi, capaci di possedere senza essere schiavi di ciò che possiedono».
Eminenza, partiamo dal primo termine: che cos’è la libertà? Oggi, la parola è spesso associata all’idea della completa autonomia da tutto e tutti. Lo vediamo in vari ambiti della nostra società: diciamo che la donna deve essere “libera” di abortire, che ognuno deve essere “libero” di morire come e quando vuole, che deve sentirsi “libero” di presentarsi secondo il genere che preferisce, che deve essere “libero” di costruire sé e il proprio destino senza condizionamenti educativi e religiosi. Chi ostacola tale esercizio di libertà è additato come un intollerante. È questa la libertà? E perché se tutti sono così liberi, tutti poi finiscono per fare e desiderare le stesse cose?
Quella così concepita è la falsa libertà e non sarà difficile dimostrarlo. Prima però vorrei mettere in chiaro un dato fondamentale: il cristianesimo non è nemico della libertà, contrariamente a quello che tanti sostengono o sospettano. Anzi, non è eccessivo dire che il cristianesimo è la religione della libertà, come è la religione dell’amore. Già storicamente non per caso la vicenda storica dell’Occidente, che ha nel cristianesimo un suo fattore determinante, da sant’Agostino in poi viene caratterizzata come “storia della libertà”.
Risalendo ai fondamenti, il Dio biblico, dell’Antico e Nuovo Testamento, è un Dio libero, che crea il mondo liberamente – tanto che potrebbe non crearlo – e agisce liberamente nella storia. In concreto, sceglie liberamente e per amore Israele tra tutti i popoli e ne fa il suo popolo. A sua volta Israele è libero nel rispondere all’amore di Dio e di fatto per lo più risponde negativamente. Nel Nuovo Testamento Dio liberamente manda il suo Figlio e il suo Spirito per salvarci, ma anche qui incontra il rifiuto dei capi del suo popolo. Con libera ubbidienza al Padre, Cristo muore in croce. Dopo la sua risurrezione liberamente molti uomini credono in lui, fino al punto di dare la vita per lui, e altrettanto liberamente molti altri rifiutano di credere. Dunque per il cristianesimo non solo Dio ma anche l’uomo è libero. In negativo lo spessore di questa libertà emerge dalla croce di Cristo: essa non avrebbe senso se i nostri peccati, le scelte negative della nostra libertà, non fossero una cosa tremendamente seria, non dico sempre ma almeno in determinati casi.
Sarebbe troppo lungo esaminare in questa chiave gli atteggiamenti storici della Chiesa. Dico solo che la testimonianza dei martiri è anche una grande testimonianza di libertà e che la Chiesa ha sempre rivendicato la propria libertà. Poi certo, per lunghi secoli, la Chiesa – pur continuando ad affermare che la fede è un atto libero – non ha rispettato abbastanza la libertà di chi non credeva, o credeva diversamente, e non ha più riconosciuto la libertà religiosa, che era un suo patrimonio originario ma nell’epoca moderna è stata rivendicata contro di lei. Solo con il Concilio Vaticano II la Chiesa ha di nuovo proclamato questa fondamentale libertà, mostrando anche che essa non ha nulla a che fare con il relativismo, a differenza di quello che pensa gran parte della cultura moderna.
Torniamo alla domanda: la nostra libertà è completa autonomia, è libertà di fare tutto quello che si vuole? No, questa non è certo la nostra libertà. Semmai è la libertà di Dio, l’unico essere assolutamente autonomo e autosufficiente. Andrebbe precisato però che la libertà di Dio, la sua santa volontà, è sempre conforme alla sua bontà e alla sua sapienza. Pensare il contrario, dice Tommaso d’Aquino, sarebbe blasfemo. Noi siamo creature, esseri limitati e radicalmente non autosufficienti. Così è anche la nostra libertà: una libertà imperfetta, sottoposta a molteplici condizionamenti, che proprio la psicologia e la sociologia moderne e contemporanee non si stancano di mettere in luce, a volte esagerando. Si tratta di condizionamenti biologici, psichici, familiari, sociali, culturali, storici, di cui, se riflettiamo, possiamo almeno in parte diventare consapevoli. Più in generale, come tutta la nostra vita così la nostra libertà ha bisogno degli altri, non si sviluppa, non cresce bene, non diventa robusta se non è aiutata da loro, in particolare dai genitori e dagli altri educatori ma anche in genere da coloro che incontriamo nel cammino della vita. È normale e doveroso, dunque, che a nostra volta, nell’esercitare la nostra libertà teniamo conto degli altri, della loro libertà ma non solo di essa: della loro vita, del loro bene, dei loro bisogni e interessi.
C’è di più: i primi nemici della nostra libertà non sono gli altri, siamo noi stessi. Come dice san Paolo nei capitoli 6 e 7 della Lettera ai Romani, il peccato tende a renderci schiavi, insidia dal di dentro la nostra libertà, ci costringe a fare non il bene che vogliamo ma il male che non vogliamo. E così già dicevano, secoli prima, i grandi tragici greci, sebbene in un’ottica diversa, piuttosto fatalista.
Non posso soffermarmi sui diversi casi concreti di presunti diritti menzionati nella domanda. Mi limito al primo, l’aborto, che è il più grave e il più frequente e a cui si può anzitutto rispondere che si tratta dell’uccisione di un altro essere umano, per di più innocente. Alla base di questi pretesi diritti sta il relativismo, per il quale il bene e il male, il vero e il falso dipendono solo dalle nostre scelte e quindi ogni desiderio diventa un diritto. Così la nostra libertà viene distaccata dalla verità e dall’etica, in ultima analisi dalla realtà, e finisce per autodistruggersi. Inoltre, l’illusione di questa falsa libertà conduce facilmente al conformismo: senza criteri oggettivi in base ai quali orientarci rimaniamo indifesi di fronte alle pressioni dell’ambiente in cui ci è dato di vivere.
Concludo questa risposta, già troppo lunga, accennando a un paradosso di cui siamo poco consapevoli. Oggi si rivendica continuamente la libertà, intesa come indipendenza dai condizionamenti esterni, ma si dimentica il presupposto di tutto, cioè la nostra libertà interna, in concreto la nostra capacità di scegliere in un modo o nel modo opposto, o anche di non scegliere affatto. Anzi, questa capacità di scegliere, di decidere, viene per lo più negata a livello scientifico, più precisamente a livello di quella delicata e oggi decisiva frontiera dove si intersecano le scienze e la filosofia. Qui molti, non tutti, sostengono infatti il determinismo, pensano cioè che in realtà le nostre scelte siano determinate dalla nostra struttura psichica: la libertà sarebbe soltanto un’illusione, magari inevitabile. Naturalmente senza libertà viene meno anche la responsabilità. La nostra vita personale e sociale si ridurrebbe quindi a un livello infraumano, analogo a quello degli animali, anzi, diventerebbe impossibile: non siamo attrezzati, infatti, per condurre un simile tipo di esistenza. Su questo terreno decisivo proprio la Chiesa è, fin dal medioevo, il più strenuo difensore della libertà. La scolastica medioevale distingueva infatti due accezioni della libertà: la libertà dalla coazione esterna e quella dalla necessità interna, e sosteneva che anche questa seconda libertà è propria dell’uomo. Nel Seicento, contro Giansenio, il magistero della Chiesa ha condannato come eretica la negazione di questa libertà interna. Se scendiamo in profondità i fronti dunque si rovesciano: la Chiesa sostiene la nostra libertà, che gran parte della cultura attuale invece contesta.
Potere. Dicevamo che il potere, in particolare quello gestito dai politici, è presentato sempre in negativo. Lo vediamo bene negli ultimi anni in Italia, dove viviamo da tempo un paradosso: chi chiede il consenso per gestire il potere non lo fa in nome della buona politica, ma dell’antipolitica. Così però si finisce sempre per votare “contro” qualcuno e mai “per” qualcosa. E questo lascia paralizzato il paese. Cosa fare per rimettere il potere nella giusta prospettiva?
Effettivamente è molto diffusa, in particolare in Italia, la tendenza a parlar male del potere, soprattutto di quello politico, in minor misura di quello economico. Sono poche, invece, le voci critiche riguardo a un altro importante potere, quello dei grandi mezzi di comunicazione. Prima di esaminare i motivi di questi atteggiamenti, vorrei però dire qualcosa riguardo ai rapporti che devono avere i cristiani con il potere politico secondo il Nuovo Testamento. Tutti ricordano, giustamente, la fondamentale parola di Gesù: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Molto nota è anche la risposta di Gesù a Pilato: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
Assai meno conosciuti sono invece i testi che parlano espressamente dei rapporti dei cristiani con il potere politico. Il primo si trova nel capitolo 13 della Lettera ai Romani. Leggiamolo, almeno in parte: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono state stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio … Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, perché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. Perciò è necessario essere sottomessi, non solo per timore della punizione ma per ragioni di coscienza …». Un secondo testo importante è nel secondo capitolo della prima Lettera di Pietro: «Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio …». Questi testi si collocano evidentemente nelle condizioni storiche di allora e non implicano una canonizzazione di forme ormai superate del potere politico. Dicono però in termini espliciti che questo potere è di per sé qualcosa di buono, perché viene da Dio, e richiedono dai cristiani lealtà e ubbidienza, per ragioni di coscienza e non solo di convenienza: un’ubbidienza da uomini liberi.
Naturalmente le cose cambiamo quando questo potere si pone contro Dio e al posto di Dio: allora bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini, come hanno mostrato in concreto i martiri. Possiamo aggiungere che c’è una maniera implicita di porsi contro Dio, di cui abbiamo fatto esperienza nel nostro tempo: porsi contro l’uomo fatto a immagine di Dio.
C’è inoltre una fondamentale parola di Gesù riguardo al senso e al modo dell’esercizio del potere all’interno della comunità cristiana: il potere come servizio, da esercitare, secondo l’esempio di Cristo, nella logica delle beatitudini che capovolge le logiche umane. Sebbene questa parola di Gesù si riferisca propriamente al potere nella Chiesa, essa ha anche, e da due millenni continua a esprimere nella storia, una valenza più vasta: il potere si giustifica se è in funzione del bene di tutti, non del bene dei soli governanti o comunque di una particolare porzione della società.
Gli insegnamenti del Nuovo Testamento si indirizzano dunque su una duplice linea. In primo luogo è sbagliato – almeno da un punto di vista cristiano – ritenere intrinsecamente negativo il potere, che invece di per sé è cosa buona e indispensabile per la vita sociale. In secondo luogo, il potere mostra la sua positività, è più facilmente compreso e accettato, se è esercitato il più possibile a favore dell’intero corpo sociale. In concreto questo vale a partire dal potere nelle singole comunità locali, per allargarsi alla comunità nazionale e, oggi sempre più, fino al bene comune dell’umanità. In un paese democratico e politicamente pluralista è fisiologico che i partiti non al potere siano critici verso il modo di esercitare il potere dei partiti che sono invece al potere, ma questo non deve degenerare in una valutazione negativa del potere come tale, e non deve sottrarsi all’impegno di indicare gli obiettivi che positivamente si intende perseguire se si otterrà a propria volta il potere.
Personalmente ritengo, o almeno spero, che la grande maggioranza degli italiani si sia ormai resa conto della sterilità e dei guasti dell’antipolitica, ma c’è ancora grande bisogno di un lavoro non tanto politico quanto culturale ed educativo per motivare un approccio più positivo e fiducioso ai problemi che abbiamo davanti e che raramente si prestano a soluzioni facili e sbrigative. In questo lavoro non solo i cattolici ma anche la Chiesa come tale può svolgere un ruolo importante, a condizione di non limitarsi a richiamare dei princìpi ma di tener conto, con sano realismo, delle situazioni concrete in cui dobbiamo muoverci.
Cattolici e potere. Oggi è innegabile un impegno di molte associazioni di chiaro orientamento cattolico nel mondo del volontariato e del Terzo settore. Un impegno importante e riconosciuto. La stessa cosa non possiamo dirla della politica. Esistono cattolici impegnati in politica, ma, spesso, questa loro appartenenza non è dirimente nelle loro scelte sul piano legislativo e amministrativo. Per fare solo l’esempio più eclatante: tutti gli ultimi presidenti del Consiglio in Italia erano dichiaratamente cattolici, eppure molte delle norme approvate nel nostro paese negli ultimi anni sono in aperto contrasto col magistero della Chiesa. Dove sta il problema?
Direi anzitutto che, al di là delle convinzioni personali degli ultimi presidenti del Consiglio, oggi in Italia il peso dei cattolici in politica è ridotto al minimo. Questo non solo in confronto al ruolo che ha svolto per più di quarant’anni la Democrazia cristiana ma anche all’influsso che i cattolici hanno avuto, dopo la fine della loro unità politica, negli anni della cosiddetta seconda repubblica, quando non di rado sono riusciti a prevalere sul piano parlamentare e legislativo.
Venendo alla domanda, il problema sta – a mio parere – nella debolezza del rapporto tra fede e cultura. Per questo rapporto rimangono fondamentali le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nel 1982: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Anni dopo, nel 1995, lo stesso Pontefice ha concretizzato questo concetto in relazione alla politica italiana nella situazione creatasi con la fine dell’unità politica dei cattolici. Ecco le sue parole: «La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, … Ma ciò nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o che non prestino sufficiente attenzione, ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace».
Oggi invece, non solo in Italia, assistiamo proprio a una diaspora culturale e politica, per la quale, anche riguardo ai temi sui quali la Chiesa si è espressa nella maniera più forte e più impegnativa, molti politici cattolici si sentono liberi di prendere posizioni opposte, condivise da tanti altri cattolici loro elettori o comunque convinti che la propria fede personale non abbia determinate implicazioni culturali e politiche.
Come uscire da questa situazione? C’è senz’altro bisogno di quel lavoro educativo a cui accennavo prima. È inoltre di grande aiuto la testimonianza di quei politici, cattolici ma anche non espressamente tali, che non temono di andare contro corrente sulle questioni eticamente più rilevanti. Oggi in politica, piaccia o non piaccia, contano soprattutto i leader: sarebbe quindi assai auspicabile che emergesse qualche leader di questo genere. Sarà difficile, comunque, ottenere a breve risultati importanti: ma questo non è un motivo per non impegnarci.
Durante il lockdown, pur costretti a esercitare la nostra libertà in forme diverse dal consueto, ci siamo accorti che quella realtà che pensavamo di poter controllare, al contrario, ci sfuggiva e, spesso, ci sopraffaceva. Chiunque, onestamente, è stato costretto a riconoscere che un quid infinitesimamente piccolo era più forte di lui. Questa constatazione che avrebbe potuto portarci a riconoscere che non siamo indipendenti né onnipotenti, oggi pare soffocata da un altro grido che circola per l’Italia: dateci i colpevoli, diteci chi deve pagare per questa situazione. Stiamo sprecando un’occasione per riscoprire la nostra vera natura di esseri finiti e mortali?
La ricerca dei colpevoli è certamente, almeno in alcuni casi, un atteggiamento irragionevole, che non tiene conto della situazione imprevista e difficilissima che abbiamo dovuto affrontare con il coronavirus. Penso però che la grande maggioranza della gente non cada in questo errore. Molti, piuttosto, si limitano a pensare che si tratti di una triste fatalità, dalla quale speriamo di uscire presto: così, per altra via, anche queste persone evitano di porsi domande troppo impegnative.
Personalmente vorrei cercare di rispondervi qui, per quel poco che ne sarò capace. A mio parere il coronavirus ci ha messi ancora una volta di fronte a quel grande paradosso che è l’uomo stesso, “canna pensante” come diceva Pascal e come pensa in realtà tutta la tradizione cristiana. Da una parte è evidente, infatti, che una piccolissima realtà della natura, un virus appunto, basta a metterci gravemente in crisi: oggi sappiamo che una minima variazione dei parametri fondamentali che regolano le grandi forze cosmiche avrebbe reso impossibile l’esistenza dell’uomo – e in genere della vita – sulla terra. Dall’altra parte abbiamo una dignità grandissima, in virtù della quale ogni essere umano deve essere trattato come un fine e mai come un mezzo, secondo la nota formula di Kant, che in questo è eco fedele dell’insegnamento di Gesù. Aggiungerei che abbiamo anche una forza enorme, quella che ci ha permesso di dominare la terra: la forza della nostra intelligenza, con la quale molto probabilmente neutralizzeremo abbastanza in breve anche il coronavirus.
Dignità e intelligenza, però, non ce le siamo procurate da noi ma ci vengono dal Creatore. Tutto dunque, non solo la nostra debolezza ma anche la nostra forza, ci spinge a essere grati e a essere umili, atteggiamenti oggi assai poco di moda ma essenziali se vogliamo riscoprire la verità di noi stessi. Come credenti a questo siamo chiamati, anzitutto ciascuno per se stesso ma anche, e non meno, testimoniando e motivando questa verità liberatrice ai nostri fratelli.
Come esergo del suo libro Un’altra libertà, scritto con Gaetano Quagliariello, si trova una frase di Gustave Thibon: «Volendo mettere la libertà dove non è, la si distrugge dove Dio l’ha messa. L’uomo che non accetta di essere relativamente libero sarà assolutamente schiavo». La frase contiene una serie di affermazioni interessanti su cui le chiedo un approfondimento: dove Dio ha messo la libertà? Dove l’uomo cerca di metterla? Cosa significa essere “relativamente liberi”?
La frase di Gustave Thibon è molto bella e pregnante ma un po’ ermetica. Rispondendo alle sue domande tenterò di interpretarla. Comincio dall’ultima: essere “relativamente liberi” significa che la nostra libertà è imperfetta, sottoposta a molteplici condizionamenti e perciò relativa e non assoluta, come ho già sottolineato anch’io. Chi pretende una libertà totale diventa invece schiavo delle sue voglie, della sua presunzione di onnipotenza. Più difficili sono, almeno per me, le domande precedenti. Risponderei così: noi troppo spesso esercitiamo la nostra libertà fuori e contro la legge di Dio, che è legge di autentica libertà, iscritta nel nostro cuore ossia nella nostra coscienza. Stacchiamo così la libertà dalla verità e la collochiamo nella menzogna, dove in realtà la libertà non può esistere.
Lei prima diceva che c’è bisogno di un grande lavoro culturale ed educativo, prima che politico. Però ha anche auspicato, sul piano più strettamente politico, che, prima o poi, nascano e crescano dei leader. Credo che lei sia d’accordo con me che dei “capi” possano manifestarsi solo se esiste un ambito, un humus, una comunità nella quale tali leader possano crescere.
In parte è così come dice lei, ma in parte è qualcosa di personale… il leader non si sceglie, ha una sua forza naturale. Tuttavia è certamente importante, perché il leader sia di un certo tipo, il contesto educativo in cui si è formato. Ad esempio, i leader della Democrazia cristiana si erano tutti formati in ambiente cristiano. Pensiamo ad Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Guido Gonella, Attilio Piccioni, tutta gente che aveva una formazione di un certo tipo.
Oggi, però, le condizioni sono assai diverse rispetto a quella situazione. L’ho spesso sentita insistere su quello che lei chiama “lavoro culturale”. Cosa significa? E, aggiungo, cosa deve fare la Chiesa? Quando nel 2007 ci fu il primo Family day si verificarono due fatti importanti: da un lato, ci fu un’indicazione chiara da parte dell’autorità ecclesiastica e, dall’altro, una mossa decisa da parte del laicato cattolico. Quando lei chiede di fare questo lavoro culturale, cosa ha in mente rispetto alle tante associazioni che esistono in ambito cattolico? E, rispetto alla Chiesa, che consiglio darebbe per mettere insieme un mondo cattolico che, lo sappiamo tutti, è molto frastagliato?
Lei ricorderà che io ho lavorato molti anni a quello che si chiamava il “Progetto culturale”. Ha avuto inizio nel 1994 ed è durato fino al 2013, quindi anche negli anni da lei citati. Poi si è spento perché la Cei non se ne è più interessata, sebbene ci fossero vescovi e laici in esso molto impegnati, ma senza il supporto vero della Conferenza episcopale il Progetto culturale si è afflosciato. E questo, secondo me, è stato un danno molto grave. Venendo alla sua domanda, si tratta sempre di mettere in rapporto fede e cultura, attraverso un lavoro educativo e formativo e coinvolgendo tutte le forze vive che ci sono. Io credo che l’idea di separare la Chiesa ufficiale, da una parte, e il laicato, dall’altra, sia un errore fondamentale che priva il laicato del suo retroterra, di cui ha assoluto bisogno, ma priva anche l’autorità ecclesiastica di quell’incidenza concreta che deve proporsi, perché la gerarchia non può pensare che sia sufficiente proclamare in astratto delle cose ma, per quanto possibile, occorre che tali cose si realizzino, in maniera libera. È dunque molto importante ristabilire una maggiore sinergia fra i laici cristiani e l’istituzione ecclesiastica. Ritengo che questo sia ancora oggi possibile, bisogna però fare una scelta più chiara. Non si tratta assolutamente di clericalismo. Dal punto di vista teologico il vescovo e la gerarchia non hanno solo una funzione di preghiera o di culto, ma anche di governo, che non va direttamente sulla politica – alla politica arriva indirettamente –, però non può prescindere dalle grandi questioni morali e antropologiche che interpellano la politica oggi. Molto è cambiato rispetto all’Ottocento, quando la politica riguardava altre cose, il rapporto Stato-Chiesa ad esempio, ma non erano in gioco i grandi princìpi. Chi parlava allora di matrimonio omosessuale o di legalizzazione dell’aborto? Tali questioni chiedono di essere affrontate con quella sinergia e quella presenza della Chiesa di cui dicevo poco fa. Ritengo che oggi ci sia un certo ripensamento, si inizia a rendersi conto che tale divisione è stata sterile. C’è ancora molta strada da fare e, soprattutto, ci siamo molto indeboliti, partiamo da una situazione peggiore di quella che c’era solo dieci anni fa.
Non è anche un problema di coraggio?
Certo!
Lei prima faceva giustamente accenno al potere del mondo dei media. Penso a Tempi e a qualche altro giornale. Effettivamente è molto difficile andare contro corrente. Lei ha citato la questione del matrimonio omosessuale e dell’aborto, ma potremmo fare mille altri esempi sui quali è arduo sostenere pubblicamente delle posizioni oggi considerate “vecchie” o “intolleranti”. Quindi, appunto, c’è anche un problema di coraggio e di tenacia, sia da parte delle comunità e associazioni cattoliche, sia da parte anche dei media di ispirazione cattolica. Come lo riacquistiamo questo coraggio? In cosa possiamo riporre la nostra speranza?
Speriamo innanzitutto nel Signore. Se si ha coraggio si fanno cose che sembrerebbero impossibili. Quando abbiamo accettato la sfida del referendum sulla legge 40, quella sulla procreazione assistita – e ricordo che il referendum ci fu imposto, non eravamo stati noi a volerlo – io dissi: “Guardate che noi non abbiamo paura”. Molti pensarono che rischiassi troppo, ma io, in realtà, sapevo che ci sarebbe stata una fetta di popolazione che si sarebbe astenuta, così come era avvenuto nella precedente consultazione sull’articolo 18. In quell’occasione a me fu richiesto molto coraggio, anche se ero certo che sarebbe finita bene, ma ero l’unico ad avere questa certezza. Dissi agli scettici: proviamo una volta tanto a giocarci la sfida puntando su un’astensione consapevole e questo, poi, piacque molto, tanto che raccogliemmo adesioni immediate e poi, pian piano, anche adesioni fra coloro che volevano votare “no”. C’è dunque un elemento di rischio che bisogna accettare perché nelle vicende umane non si sa mai come andrà a finire. È come nell’educazione: quando si educa alla libertà c’è sempre un rischio, un “rischio educativo”, un pericolo di insuccesso – don Luigi Giussani ha spiegato molto bene queste cose. Ma, appunto, bisogna rischiare, non si può non dare mai libertà per paura di rischiare. Non dare libertà è, tra l’altro, la maniera più sicura perché, prima o poi, il ragazzo si ribelli.
A proposito di quel referendum sulla legge 40, una delle cose più interessanti che accadde in quel periodo fu la risposta di un certo mondo laico alle preoccupazioni che venivano sollevate dai cattolici. L’interesse maggiore non fu tanto e solo relativo alle questioni di bioetica e biologia, quanto nel fatto che, attraverso di esse, si mostrò la grande razionalità della fede cattolica. Una razionalità così potente che una parte del mondo laico, sostanzialmente, seguì la Chiesa. Anzi, contribuì, fornendo e facendo osservazioni molto interessanti per il mondo cattolico. Credo che, negli ultimi anni, quello sia stato il culmine dell’incontro tra il mondo laico e cattolico. Rispetto a questo mondo laico, che preoccupazione dobbiamo avere noi cattolici? Che richieste dobbiamo avanzare? Su quali punti possiamo convergere?
Innanzitutto dobbiamo avere un atteggiamento molto positivo, perché non è vero che certi princìpi possono essere solo dei cattolici: hanno una loro razionalità e positività intrinseca che convince molte persone credenti o non credenti, praticanti o non praticanti. Questo lo ha sottolineato più volte papa Benedetto negli scritti che ha pubblicato poco prima di salire al soglio pontificio, in cui diceva che era fondamentale questa apertura, questo non costruire barriere tra laici e cattolici. A tal fine bisogna partire da fatti concreti ed è su questi che va portata l’attenzione, non sulla discriminante “cattolico o non cattolico”. Questo è un limite che hanno a volte certi gruppi cattolici ma che va decisamente superato, cercando di concentrarci sulla sostanza delle cose. Ho conosciuto varie persone che, proprio attraverso questa strada, hanno trovato la fede perché, impegnandosi su certi contenuti e valori e riflettendo, hanno compreso che non c’era motivo per non credere. Al di là di questo, è importante attirare il più largo consenso possibile sui contenuti come tali. A mio parere l’unità politica dei cattolici oggi è impossibile, però è possibile mettere in luce dei contenuti su cui ci sia una larga convergenza. Questa era una dimensione del Progetto culturale e del discorso che fece Giovanni Paolo II a Palermo.
In questi giorni ricomincia la scuola e, come sa, Tempi è sempre molto attento a quanto accade in quel mondo, in particolare tra gli istituti paritari che, in questi ultimi anni, sono in difficoltà. Ad aggravare una situazione già complicata è arrivato il coronavirus e qui va sottolineato il contributo della Cei che, tramite i sussidi, ha dato una mano alle famiglie che vogliono iscrivere i figli a queste scuole. La prima domanda che le pongo è perché, secondo lei, le paritarie meritino di esistere ancora. La seconda è cosa dovrebbe fare lo Stato nei loro confronti. E la terza è cosa direbbe a tutte quelle famiglie, quelle comunità e quei professori che fanno sì che queste scuole continuino a esserci.
Questa è una questione solo italiana, perché sappiamo bene che altri paesi, che sono certamente legati alla Chiesa meno di noi, hanno una piena libertà scolastica e si meravigliano che noi non l’abbiamo. È un residuo della cultura risorgimentale che si trascina ancora oggi, ma che non ha nessuna ragione intrinseca. Alla base c’è un concetto ristretto della libertà di insegnamento. Perché un insegnante dovrebbe essere libero ma solo dentro la scuola dello Stato? Se viviamo in un paese liberale e democratico che assicura non solo il voto a tutti ma anche la libertà, allora bisogna riconoscere che una delle libertà fondamentali è quella di insegnare. E questa si può concretizzare in istituti dediti all’insegnamento come sono le scuole e le università.
Per il resto, occorre che la scuola cattolica sia davvero tale anche nei contenuti che propone. Quando si spiega la filosofia, la letteratura, le scienze è importantissimo che nella scuola cattolica si esprima una posizione che ha certe radici e giunge a certe conclusioni. Altrimenti è una scuola cattolica di nome, ma non di fatto. Se c’è una scuola che è libera ed è veramente cattolica per i genitori è ottima cosa affidarle i figli, perché così si completa la loro opera educativa. Questo vale sempre, ma in particolare oggi: i ragazzi non vengono educati solo dalla famiglia, ma da un più ampio contesto, ed è fondamentale che accanto alla famiglia ci sia la scuola. È importante che la famiglia cattolica possa dire: faccio un sacrificio però sono aiutata in questo, c’è una forza convergente con la mia. Poi c’è il gruppo dei pari, dove i ragazzi possono essere accolti da movimenti e gruppi parrocchiali. Se queste tre cose – la famiglia, la scuola, la comunità –, anche in un contesto che non ci è favorevole, sono insieme, ci sono possibilità molto forti di ottenere dei buoni risultati nell’educazione dei figli.
Foto Tempi
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