
Libertà di educazione. Questo è debito buono

Caro direttore, ho letto con soddisfazione le proposte delle Associazioni dei Gestori delle scuole paritarie per un uso efficace dei soldi del “Recovery Plan apparse sul tuo giornale in un articolo dal titolo significativo “I fondi vanno usati per un cambio di passo nell’istruzione”. Condivido totalmente il contenuto di quelle proposte. Recentemente le stesse sigle con l’aggiunta dell’Agesc avevano sottoscritto un documento a sostegno delle scuole paritarie in forma di emendamento al “Bilancio di previsione 2021”. Documento analogo veniva proposto da una numerosa cordata di sigle capeggiate da Usmi e Cism.
Insomma c’è la consapevolezza che stiamo vivendo un momento importante, delicato e forse unico, un momento che da un lato impone la necessità di un cambiamento e dall’altro lascia sperare che questo sia possibile. Di qui il fiorire di proposte tese a dare forma e concretezza a tale cambiamento. Sono convinto che la nascita di un Governo Draghi apra alla speranza che queste proposte trovino accoglienza in una misura certamente più ampia di quanto si potesse sperare dai governi precedenti. Lo stesso Draghi, già nel lontano 2006 da Governatore della Banca d’Italia, ebbe chiare parole di promozione della libertà di educazione quando affermò che occorreva garantire pari opportunità di accesso alle scuole e valorizzare l’eccellenza aumentando «la concorrenza tra gli istituti pubblici e privati, con modalità di finanziamento che da un lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne le possibilità di scelta» (Lectio Magistralis all’Università La Sapienza). Più recentemente tutti ricordano il fondamentale passaggio nel suo intervento al Meeting di Rimini in cui parlò di “debito buono” opposto a “debito cattivo” annoverando chiaramente gli investimenti in scuola e istruzione fra quelli a “debito buono”.
C’è da sperare quindi, anche se con trepidazione: mancare questo appuntamento sarebbe veramente colpevolmente disastroso, anche perché condizioni favorevoli al cambiamento come quelle attuali difficilmente si ripresenteranno, almeno in tempi brevi e prevedibili. Insomma questo è il momento per rendere le scuole paritarie veramente paritarie, rendendo finalmente giustizia al loro nome. Ritengo che questo passo sia non solo opportuno, ma propriamente necessario. Necessario non tanto e non solo per le scuole paritarie (la moria delle scuole paritarie è da anni inarrestabile e neppure troppo lenta) ma per l’equilibrio e l’efficienza del sistema scolastico nel suo insieme. L’ulteriore indebolimento delle paritarie e, al limite, la loro estinzione rappresenterebbe un danno gravissimo a tutto il sistema, in termini di libertà, di competitività e di conseguente stimolo al miglioramento e all’eccellenza. La stessa pandemia ha mostrato in modo chiaro una migliore capacità di resilienza e di gestione della situazione eccezionalmente critica e difficile, creatasi a motivo della stessa. La gestione degli spazi, degli orari, dei trasporti, dei distanziamenti, della didattica a distanza, del rapporto con le famiglie e con il territorio hanno trovato (statisticamente parlando) soluzioni mediamente più tempestive efficienti ed efficaci da parte delle scuole paritarie. È un dato e un segnale che va tenuto presente e suggerisce anche in modo chiaro la direzione da intraprendere.
Mi preme però fare un ulteriore approfondimento prendendo spunto da Luisa Ribolzi che ha affrontato la questione nella sua globalità. Da un lato, certamente c’è il tema della difesa, o meglio del riconoscimento del servizio pubblico delle scuole paritarie, portando a compimento le conseguenze logiche in termini economici e normativi di tale riconoscimento, ma dall’altro c’è il tema della scuola statale. Rendiamoci conto che oltre il 90% del sistema scolastico italiano è costituito da scuole statali. Se non si interviene su queste, qualunque pur giustissimo intervento sulle paritarie non potrà essere risolutivo in una prospettiva che guarda al Paese in generale. E perché bisogna intervenire sul sistema delle scuole statali? Semplicemente perché non funziona. Non funziona più. Del resto le classifiche dei sistemi scolastici di Ocse-Pisa sono lì a documentarlo impietosamente: l’Italia arranca in posizioni sotto la media europea e se possibile, arretra negli anni.
Ricerche statistiche recenti hanno mostrato che all’aumento della spesa in istruzione non è corrisposta nessuna variazione positiva degli apprendimenti. Che fare? Intraprendere finalmente una riforma che si muova nella direzione che finora nessuna delle innumerevoli riforme della scuola operate dagli innumerevoli ministri dell’Istruzione della Repubblica, è stata mai esperita: la libertà di educazione. Cioè un sistema scolastico costituito da scuole libere ed autonome. Un sistema scolastico in cui lo Stato sia governatore ma non gestore. Una rivoluzione di portata tale che non potrà che essere graduale, anche molto graduale. Ma occorre muovere i primi passi. Non credo ci si possa aspettare un significativo miglioramento se non andando in questa direzione. Anzi, siamo convinti che senza autonomia e libertà di educazione i soldi del Recovery Fund saranno buttati. Del resto, per tornare alle classifiche Ocse-Pisa citate, i Paesi che ci precedono in quelle classifiche, presentano sistemi scolastici in cui, in forme diverse, la libertà di educazione è presente in misura maggiore che nel nostro sistema. Questo è un buon momento per farlo. E serviranno risorse economiche per farlo, anche se non credo in misura importante e anzi, con indubbi risparmi in una prospettiva di medio-lungo. Ma i soldi ci sono. Ed è “debito buono”.
Mi piacerebbe che a favore di una riforma in questo senso non ci siano solo gli “addetti ai lavori” cioè gestori di scuole o studiosi dei sistemi scolastici, persone enti, istituti legati al vasto mondo della scuola e della formazione. Mi piacerebbe che ci fosse un movimento corale a sostegno di questa mossa. E penso innanzitutto alle imprese, al mondo economico, che sempre più prende coscienza di dipendere (e tanto più in Italia, paese povero di materie prime) dal “capitale umano” cioè dall’eccellenza del contributo di creatività e di innovazione, di protagonismo responsabile delle persone. E come non vedere in questo il ruolo decisivo di una scuola all’altezza del suo compito? Mi piacerebbe vedere anche nei documenti e nelle proposte di Confindustria come di altre sigle del vasto mondo dell’economia e della finanza, un richiamo deciso alla necessità di una riforma della scuola che allarghi progressivamente lo spazio e quindi il contributo positivo della libertà di educazione. Autonomia e libertà: ecco la cura per la scuola e per il Paese.
Plinio Agostoni
Presidente Fondazione “Don Giovanni Brandolese”
Foto Ansa
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