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Lettera da Isohe. «Abbiamo più bisogno della vostra fede che della vostra competenza»

Lettera dal Sud Sudan del medico Alberto Reggiori che sta seguendo un progetto per Avsi. E dove la giustizia sono facce, non maschere leguleie

Alberto Reggiori
04/11/2012 - 9:55
Esteri
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Isohe, villaggio sperduto sulle verdi montagne Dongotono nello stato dell’Est Equatoria in Sud Sudan, è difficile da trovare anche sulla carta geografica. È troppo piccolo e quasi mai segnalato. Qui nel 1926 arrivarono i primi missionari comboniani, seguiti due anni più tardi dalle suore della stessa congregazione. Fu l’inizio del primo cambiamento dopo millenni. Il loro desiderio di partecipare all’opera creatrice del Padreterno non fu sterile: furono costruite una scuola, una falegnameria, un dispensario, una fattoria modello e una stupenda chiesa in mattoni rossi che appare all’improvviso dopo un viale alberato che ricorda più un parco europeo che un ambiente africano.

La lunga guerra per l’indipendenza durata oltre trent’anni, l’isolamento assoluto di queste popolazioni hanno fatto sparire molto di quello che era stato costruito. Durante i bombardamenti aerei e le razzie con cui il governo arabo di Karthoum si accaniva contro i cristiani neri del Sud Sudan, la gente cercava rifugio sui picchi più alti e nelle caverne delle montagne.
Molti villaggi sono ancora là, isolati dal mondo, con la gente che scende a valle solo per vendere qualche prodotto dell’orto o per la Messa domenicale. Anche i dialetti sono diversi e a volte la gente non riesce a parlarsi. L’acqua per fortuna non manca.

Qui da circa dieci anni Avsi è presente. I primi volontari che arrivarono qui terrorizzarono i bambini: chi aveva meno di 16 anni non aveva mai visto un uomo bianco in vita sua; ora questi volontari realizzano progetti di sostegno alla scuola St. Kizito (quasi mille alunni), al piccolo ospedale, ai dispensari sperduti nel bush ai confini con il grande parco nazionale del Kidepo, con leoni che ogni tanto si fanno intravedere. Il sostegno a distanza rende più serena la vita di circa 430 bambini, permettendo loro di andare a scuola e curarsi se ammalati (qui non è certo un evento eccezionale).
Ogni giorno due fuoristrada Toyota di Avsi affrontano le orribili strade della zona (nei guadi l’acqua fangosa copre il cofano) e raggiungono i villaggi dove vaccinano sino a 150 bambini, anche contro la rabbia che compare inaspettata. Io sono qui per la terza volta, la mia professione di chirurgo aiuterà l’apertura della sala operatoria che ancora manca all’ospedale. Siamo alle ultime finiture, nei prossimi 2-3 mesi dovremmo farcela finalmente a operare pazienti che ora sono trasportati negli ospedali più vicini; si fa per dire: mai meno di 4-5 ore di salti e polvere senza aver poi la certezza di un trattamento adeguato.

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Quando vedo i volontari, vedo le suore africane che hanno sostituito quelle italiane, il prete ugandese che è parroco qui, le infermiere dell’ospedale, leggo in loro la vera essenza del cristianesimo: l’amore assoluto e incondizionato anche per uno solo; la vita che vale solo se spesa per un amore più grande. Questo rende straordinariamente normale il tempo speso qui, cercando di convincere i genitori di un bambino anemico e agonizzante a donare il loro sangue per salvarlo, operando con mezzi di fortuna i feriti d’arma da fuoco che regolarmente arrivano, cercando di far funzionare l’autoclave con il libretto d’istruzioni in cinese (ammetto l’ignoranza ma non capisco un accidente), discutendo l’organizzazione della sala operatoria con i colleghi medici sudanesi, spiegando a una madre come alimentare il figlio prematuro che non riesce a succhiare il suo latte. Durante un incontro di lavoro padre Ben, segretario del vescovo di Torit che rappresenta la nostra controparte, improvvisamente, come cambiando discorso, ci ha detto: «La cosa che più interessa a noi è il vostro essere cattolici, la vostra fede, noi abbiamo bisogno di questo forse più che della vostra competenza. Vedete, ci sono tante Ong, molte sono efficienti, ma quello che vi rende importanti è solo questo, continuate così!».

La sua coscienza mi ha dato coraggio e gli ho proposto di vederci una volta alla settimana per leggere insieme una parola chiara di giudizio sulla vita, così qualcosa è già cambiato e continua a ringraziarci di questa inaspettata amicizia. C’è una scintilla di consapevolezza e di nostalgia che nessuna situazione al mondo potrà mai spegnere, questo mi ha confermato una volta di più padre Ben! Per orizzonte il mondo: era quello che ci si comunicava anni fa e questo ho incontrato oggi qui a Isohe, ben sapendo che le cose non potranno cambiare nemmeno quando rientrerò in Italia e ricomincerà la cosiddetta routine.

Tags: alberto reggioriavsisud sudan
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