Lesbo è per i profughi «un posto in attesa di morire»

Di Caterina Giojelli
20 Gennaio 2020
Jalila, scappata dai talebani perché voleva andare a scuola, e gli altri miserabili "ostaggi" del campo di Moria. Un inferno abitato da 19 mila migranti, quasi la metà bambini, che dormono a terra senza luce, riparo, né risposte alle loro richieste di asilo

I talebani le vietavano di andare a scuola, «dicevano che sapevo leggere e conoscevo il Corano, ed era abbastanza», per questo la piccola Jalila aveva lasciato la provincia per andare a Kabul. Ma invece di libri e banchi, aveva trovato le bombe: «Durante la prima esplosione mi trovavo in classe, la scuola tremava. La volta successiva, un camion bomba squassò tutto il quartiere». Fu allora che suo padre, che non voleva darla in sposa a nessuno così giovane, decise che il futuro di Jalila sarebbe stato in Europa, un posto sicuro per le ragazze.

UN CAPPOTTO E UNA COPERTA PER TERRA

Di tutte queste cose la diciottenne Jalila ha parlato al Guardian: l’inviata Harriet Grant l’ha incontrata nell’oliveto di Lesbo, tremante e sorridente accanto a un fuoco acceso dal gruppo di profughi afghani sbarcati da un gommone sull’isola greca alle prime luci dell’alba dell’11 gennaio: «Non abbiamo mangiato per due giorni, speriamo che ci sia cibo al campo. E speriamo di poter iniziare subito la scuola», aveva detto la ragazza alla giornalista prima di scomparire sul pullman che l’avrebbe portata insieme a uomini, donne e bimbi piccoli e infreddoliti al campo profughi di Moria. Purtroppo a Moria Jalila non avrebbe trovato nessuna scuola. E nemmeno un riparo dal freddo. Invece di una tenda le hanno dato un cappotto e una coperta, mostrandole un fazzoletto di terra: «Ho dormito sotto le bellissime stelle, va bene. Mi sento più al sicuro qui che durante viaggio in Turchia (…) sono felice di essere qui, ma ho bisogno di un posto caldo per dormire».

DICIANNOVEMILA PROFUGHI, POCO PIÙ CHE BAMBINI

Sotto le “bellissime stelle” guardate con ottimismo dalla ragazza dormono oggi 19 mila persone. Il campo, originariamente destinato all’accoglienza di 3 mila profughi, si è trasformato in soli sei mesi in un’immensa baraccopoli abitata per il 40 per cento da minori di 18 anni, oltre la metà bambini al di sotto dei 12. Manca l’elettricità, manca l’acqua, fumi di fango e spazzatura attraversano le cerate. Molti bambini sono malati, la clinica di Medici senza frontiere fuori dal campo riesce a fare fronte solo alle emergenze. Prima di Natale un bimbo di nove mesi è morto a causa della grave disidratazione prima di poter raggiungere l’ospedale di Mitilene.

«MIO FIGLIO HA TREMATO E TREMATO»

Sabre, 39 anni, incinta di otto mesi, scappata con marito e sei figli dall’inferno di Kunduz, nel nord dell’Afghanistan, non è mai stata visitata da un medico e non riesce nemmeno a chinarsi per entrare nella tenda minuscola che è stata assegnata alla sua famiglia. Ora è riuscita a farsi prestare 150 euro e con pallets e chiodi sta provando a costruire una capanna. Anche Feruze, 34 anni, ha sei figli: per tutti loro era stata affidata a lei e al marito una tenda singola, e sono stati costretti a chiedere ospitalità da altri afghani. Ma più della logistica la terrorizza il freddo e l’impossibilità di trovare un medico per due dei suoi piccoli che sono malati, «i bambini avevano così freddo la scorsa notte, non avevamo coperte. Mio figlio ha tremato e tremato».

AHMED E ALI, IN FUGA DALLA SIRIA

Ahmed ha 17 anni, ha perso un amico crivellato dai proiettili mentre provavano ad attraversare il confine turco, e ora vive sotto un foglio di tela cerata con altri due adolescenti: «Mi preoccupo continuamente per la mia famiglia in Siria; potrebbe succedere di tutto, Isis, la Turchia potrebbe venire e prendere il controllo del villaggio. La nostra casa è già stata bombardata». Ci è voluto un anno per convincerlo a scappare per tentare il ricongiungimento con suo fratello e suo cugino nel nord dell’Inghilterra. Anche Ali, 33 anni, è scappato dalla Siria: insegnava inglese a Idlib e quando la città è stata rasa al suolo è scappato con i suoi quattro figli. Ora «quando piove temiamo per la vita dei nostri bambini temiamo che moriranno sotto la pioggia, il freddo, il vento. Per i siriani, questo è un inferno. Ma siamo senzatetto, senza città, per quanto sia alto il rischio di morire lungo la strada, non abbiamo altra scelta che andarcene».

«LE PERSONE A MORIA PERDONO LA TESTA»

Ali proverà a raggiungere parte della famiglia in Germania, ma è preoccupato per l’educazione dei suoi figli che come gli altri 6.300 piccoli in età scolare a Lesbo non ricevono istruzione: «Non posso mandarli a scuola qui. L’uomo ha delle priorità nella vita: la prima è la tranquillità, un posto pulito e sicuro. Quindi possiamo passare all’apprendimento. Queste condizioni non sono disponibili qui a Moria. A volte pensiamo che Moria sia solo un posto in attesa della morte. La maggior parte di noi qui è cambiata psicologicamente. Alcune persone hanno perso la testa».

LESBO ALLA DERIVA

La convivenza tra afghani (il 75 per cento dei migranti sull’isola, dalla quale stanno scomparendo i turisti), curdi, siriani, iracheni si fa ogni giorno più complicata; ognuno cerca di stringersi in gruppi etnici rifondando le proprie comunità ma il freddo, la fame, il racket, la totale assenza di condizioni igieniche-sanitarie e di istruzione, i tempi biblici della burocrazia cui sono affidate le richieste di asilo, nonché i sempre più frequenti episodi di violenza (due giorni fa durante una rissa al centro è morto accoltellato un ventenne yemenita) stanno portando Lesbo alla deriva con le sue Jalila, scappata dai talebani perché voleva andare a scuola.

Foto Ansa

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