Lasceremo che i turchi piantino le tende del Sultano nel nostro cuore armeno?
Anticipiamo l’articolo firmato da Renato Farina per la rubrica “Il Molokano” che apparirà nel numero di ottobre di Tempi mensile. (Attenzione: di norma i contenuti del mensile sono riservati agli abbonati. Per abbonarti a Tempi, clicca qui).
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Non è politica forestiera, geopolitica per teorici dei rapporti di forza, parlare il mese scorso di Libano e stavolta (ancora!) di Armenia. Sono affari interni, nel senso che riguardano il cuore, le budella, l’anima mia ma se c’è un sospirare cristiano in chi legge, è la stessa cosa per tutti.
Conviene rinnovare la ragione del titolo della rubrica e dunque del suo titolare: “Il Molokano” (o anche Molokane). Testualmente sarebbe “il bevitore di latte”. Coincide con un gruppo di ortodossi russi ostili alla gerarchia corrotta, e perciò messi in fuga, costretti all’esilio, e infine amorevolmente accolti dai fratelli armeni, il popolo fatto cristiano prima di tutti gli altri, nel 303, grazie a san Gregorio l’Illuminatore. 303! Dieci anni prima cioè dell’editto di Milano con il quale Costantino statuì che la religione sgorgata dal costato del Nazareno diventasse ufficialmente il nerbo spirituale dell’impero.
L’Armenia non ha mai girato le spalle alla Croce, anzi vi è stata inchiodata ad ogni svolta della storia. La Croce armena però è rappresentata come fiorita. Il nesso con la resurrezione e con la pace è contemplato già in quel legno, che mentre guarda il biblico Ararat si è fatto pietra e cosparge un territorio aspro di sassi e dolce di acque rare ma azzurrissime. Qui una pattuglia di molokani ha trovato accoglienza fraterna vicino al lago di Sevan, che è in realtà un monastero acquatico, tanto impone di genuflettersi davanti a Chi lo ha creato.
Un secolo fa (1915) gli armeni sono stati oggetto di un genocidio ad opera del governo turco. Un milione e mezzo di cittadini armeni dell’impero ottomano furono sterminati. La diaspora dei sopravvissuti ha inondato il mondo di intelligenza e musica. Charles Aznavour ne è stato l’emblema. L’Armenia attuale è solo una piccola porzione di quella storica. Diventata repubblica sovietica, nel 1991 si è proclamata indipendente: ora ha tre milioni circa di abitanti, sostenuti da altri dieci milioni di connazionali presenti nel mondo.
La Chiesa armena non è ortodossa, nel senso dottrinale, ma è orientale nel senso della profondità estetica e caratteriale. Mancata al Concilio di Nicea causa una delle solite invasioni, non ebbe modo di sposare un dogma trinitario. Di recente, come segno di comunione piena, papa Francesco ha qualificato san Gregorio di Narek “dottore della Chiesa” (cattolica). Venezia è armena nel proprio cuore, e gli armeni sono veneziani.
E cosa succede ora in questa terra caucasica? Il Nagorno Karabakh, uno dei luoghi più belli che sia dato ammirare, per le idiozie sovietiche, pur essendo di sangue e cultura e fede cristiano-armeni, fu incluso nella Repubblica dell’Azerbaigian, di etnia e cultura turca e islamica. Alla dissoluzione dell’impero dell’Urss il Nagorno Karabakh si proclamò indipendente rispetto a Baku e allo Stato azero, il referendum ebbe esito chiaro come il sole. Niente da fare. Gli azeri nel 1992 diedero guerra, la persero. C’è un corridoio che da allora tiene unita l’Armenia e la repubblica che in armeno è detta Artsakh (150 mila abitanti, resistenza cristiana). Ci fu un armistizio nel 1994. Che viene rotto di tanto in tanto.
Il fatto dirompente è Erdogan e la sua politica di espansione: in Libia, Kurdistan siriano, in Africa orientale (Somalia) e con particolare ferocia nel Caucaso. In nome della fratellanza turca e islamica appoggia le rivendicazioni dell’Azerbaijan, che aizza per procura contro Erevan (capitale antica della Repubblica Armena). Ha inviato in Azerbaigian i jihadisti già impiegati vittoriosamente in Libia. Mentre scrivo continuano gli assalti al Nagorno Karabakh con bombardamenti contro abitazioni civili.
In realtà Erdogan vuole così premere sulla Russia che finora ha tutelato l’Armenia. Quando leggerete dove saranno i miei fratelli? Ma soprattutto dove sarà il cuore di questa Italia e dell’Europa? Ci tocca sperare nella Russia. Anzi non nella Russia, nella grazia indomita che Dio ha concesso a questo popolo, di versare sangue e di fiorire.
Ma davvero lasceremo alla Turchia di piantare le tende del Sultano tra i monasteri sopravvissuti allo scempio prima delle stragi ottomane e poi dell’ateismo comunista sovietico? Non è una questione estera, o di equilibri dell’ordine mondiale, ma interna, più che interna: intima.
Ricevo intanto questi messaggi che trasmetto a tutti voi dai miei fratelli del lago di Sevan, essendo io povero molokano costretto all’esilio in Italia causa Covid: «Speriamo che gli azeri cessino l’aggressione disumana. Ci sono attacchi su larga scala, in questo momento sento cadere le bombe». Ancora: «Caro Renato, sono ore tragiche! Ora, la Turchia sta partecipando agli scontri con l’ausilio di mercenari jihadisti inviati a Baku da Afrin. Nulla di nuovo per noi. Non cederemo quelle trincee del cristianesimo nel senso più concreto del termine. Un abbraccio! Fraterno!». Fratello, torno presto.
Foto Ansa
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