«Il cartellone illustrato nella sua gloria effimera, perché il sole lo scolora, la pioggia l’inzuppa e lo macula, il vento lo lacera, corrisponde mirabilmente all’intensità febbrile dell’esistenza vorticosa delle nostre grandi città». Così scriveva nel 1896 Vittorio Pica, uno dei primi scrittori italiani a occuparsi di cartellonistica, quell’arte tutt’altro che povera figlia della civiltà industriale. Sì perché mentre la réclame del prodotto e il suo acquisto si conquistavano un ruolo nella civiltà dell’immagine, il manifesto pubblicitario entrava a pieno titolo tra le arti visive maggiori.
È quello che racconta, con una notevole mole di manifesti d’epoca, la mostra dal titolo Soltanto pubblicità? Affiches, visual design, pop art allestita alla Raccolta Bertarelli, realtà milanese che da ottant’anni raccoglie la produzione cartellonistica in ottica museale. Si parte dalla fine dell’Ottocento, quando l’ispirazione degli artisti pubblicitari era ancora il linguaggio pittorico. Da Julies Chéret, considerato il padre del manifesto artistico moderno con Theatre de l’Operà, sino alle composizioni del pittore slovacco Alfons Mucha in stile liberty e floreale. Gli esordi del XX secolo, legati al mito del progresso e al commercio su larga scala di prodotti industriali a basso costo, vedono in Milano il luogo deputato allo sviluppo dell’istruzione professionale e all’arte applicata all’industria. Il capoluogo lombardo divenne il massimo centro italiano di produzione di pubblicità moderna come testimoniano, tra gli altri, Giovanni Maria Mataloni con la Società Anonima per la incandescenza a Gas (1895), oppure Leopoldo Metlicovitz con Madama Butterfly (1904), o la Fratelli Sanguinetti (1904) di Dudovich, che testimoniano i passatempi e la vita degli aristocratici d’un tempo.
Furono tempi eroici per Milano, diventata uno dei maggiori centri di comunicazione pubblicitaria e grafica industriale del mondo, dove anche giovani artisti, come Umberto Boccioni che lavorò per l’impresa Chiattone, partirono da una formazione grafica esordendo come cartellonisti.
Di poco posteriori sono Treat’em Rough! : Join the Tanks (1917-18) di August William Hutaf che testimonia l’intervento statunitense durante la prima guerra mondiale pubblicizzando i carri armati.
Negli anni Venti i disegnatori italiani usavano composizioni colorate, curiose, esilaranti, tali da sollecitare i sensi e la fantasia. Campione di questo tipo di maniera fu il livornese Leonetto Campiello. Per lui «il manifesto buono e riuscito è commerciale e artistico, se no non è un manifesto». Il suo Bitter Campari (1921) con quella sorta d’arlecchino che esce da una buccia d’arancia con in mano la bottiglia può dirsi, a ragion veduta, il simbolo d’un epoca. Ma straordinari sono anche Hydra Crema Sovrana per Calzature (1922) di Achille Luciano Manzon con questo gigante nero, trasbordante simpatia che si spazzola i piedi, oppure La Rinascente. Articoli per villeggiatura (1923-26), del grande Dudovich, che ha una compostezza da affresco rinascimentale.
Negli stessi anni emerge, almeno in Italia, l’approccio futurista all’arte pubblicitaria. Secondo Fortunato Depuro, il più attivo in quest’ottica, la pubblicità era un’arte «viva e moltiplicata», attraverso la diffusione delle immagini, come quelle dei suoi fantocci metallici, disegnati.
Gli anni della guerra
Negli anni della Seconda guerra mondiale la cartellonistica, che si occupa di propagandare le rispettive ideologie, assume sempre più il valore di una disciplina autonoma, prendendo spunti grafici anche dall’architettura e dalla fotografia. Con il termine del conflitto e la successiva ricostruzione, anche la pubblicità vive una nuova stagione gloriosa in Europa.
È così che, ad esempio, in Italia, la fotografia s’alterna alla grafica e ai colori nel pubblicizzare un cappello, come in Borsalino (1953) di Max Huber: anche i caratteri assumono maggior valore, fino a trasformarsi in elementi compositivi, come in Olivetti, o in Lettera 22, entrambi del 1953. Sono gli anni della ricostruzione e del boom economico, dove il prodotto assume un valore sempre più pressante e l’immagine fotografica sempre maggior spessore. Quegli anni, quando i bambini andavano a letto dopo aver visto Carosello, sono in fondo gli albori del consumismo di massa odierno, legato alla ripetizione ossessiva dell’immagine.