La guerra contro Hamas è completa a metà. E la seconda metà potrebbe essere più dura

Di Giancarlo Giojelli
29 Dicembre 2023
Israele dice di essere pronta a impegnarsi su sette fronti e il settimo fronte è l'Iran. Nessuno vuole che il conflitto si allarghi, ma nessuno sa come evitare che accada

La guerra ruggisce a Gaza, le battaglie dilagano in Cisgiordania, il pericolo aumenta a Nord, ai confini con il Libano e con la Siria. Razzi e bombardamenti. La nuova minaccia arriva dal Mar Rosso e l’incubo peggiore resta l’Iran. Il quadro si compone intorno e dentro Israele e si teme una guerra su vasta scala. Israele dice: abbiamo aperti sette fronti, non uno solo.

Le notizie che arrivano di giorno in giorno sono tessere infinite di un grande mosaico di cui si intravede la cornice, molto più ampia di quanto si poteva pensare solo pochi mesi fa, e forse si delinea il disegno finale. Ma come si compongono le tessere nessuno sa dirlo. Il mosaico si costruisce sul campo e quello che succede nessuno può immaginarlo con precisione. Solo tante versioni, tutte di parte. Persino c’è confusione sul numero delle vittime, comunque altissimo.

La cornice

Il ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant, generale di lungo corso e politico (è stato più volte ministro nei governi di Netanyahu), poche settimane fa aveva detto che l’operazione di terra a Gaza si sarebbe estesa in altre zone della Striscia, fino a portare i capi di Hamas negli unici posti che meritano, cioè «al cimitero o in prigione». Ora precisa che Israele è pronto a impegnarsi direttamente su più fronti. “Quanti?”, gli viene chiesto. «Sheva», risponde. Cioè sette. «Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran». E aggiunge: «Chiunque colpisce o agisce contro Israele sarà un potenziale bersaglio, e non ci sarà immunità per nessuno. Abbiamo reagito e operato contro sei di quei fronti». Non precisa il settimo, ma è chiaro che parla di aree dove Israele sta combattendo sul terreno (Gaza, Cisgiordania), di zone dove colpisce con raid aerei (le postazioni Hezbollah in Siria), di zone da cui si sente esplicitamente minacciato (i ribelli filoiraniani dello Yemen, gli Houthi), di paesi dove pensa che i leader di Hamas abbiano rifugio (Iraq) e di un paese che è il vero e grande pericolo che mette a rischio la sopravvivenza di Israele: l’Iran che, secondo il Mossad, da tempo sta preparando un’arma nucleare, fermato finora più da attacchi aerei o attentati che hanno distrutto o gravemente danneggiato i siti atomici che non dalle pressioni delle grandi potenze mondiali.

Gallant non cita il Qatar, che appoggia da tempo Hamas. E resta il dubbio su quale dei sette paesi sia stato finora risparmiato da “azioni dirette” e che in un prossimo futuro porterebbe essere il nuovo obiettivo. Certo, Israele non ha mai colpito, almeno a quanto si sa, lo Yemen, ma non può ignorare gli Houthi, che dipendono in tutto da Teheran, che colpiscono con missili e atti di pirateria le navi petrolifere che dal golfo di Aden si dirigono verso il mar Rosso e quindi risalgono verso Suez. Hanno dichiarato che, se non si fermerà la guerra a Gaza, isoleranno il Mediterraneo intero, bloccando le forniture di petrolio.

Il mosaico

La guerra contro Hamas è completa a metà, e la seconda metà potrebbe essere molto più dura. A quasi tre mesi dall’inizio delle ostilità, dopo il massacro del 7 ottobre, buona parte della Striscia, almeno la parte più popolata, dove i soldati israeliani si erano ritirati dal 2005 affidando all’aviazione il compito di rappresaglia contro i lanci di razzi verso le città del Sud e i kibbutz della zona, è sotto il controllo dell’Idf, l’esercito israeliano.

Ma è un controllo a macchia di leopardo, casa per casa continuano i combattimenti. L’Idf ha scoperto chilometri e chilometri di intricati tunnel sotterranei, di cui si conosceva l’esistenza ma non la reale estensione. Ci sono rapporti dei servizi segreti che segnalavano da tempo la situazione ma sono stati sottovalutati. Israele, e soprattutto chi lo governava, sembrava convinto che il pericolo di Gaza fosse in qualche modo limitato e circoscritto, che i sistemi di sicurezza, le telecamere di sorveglianza, il muro avrebbe contenuto la situazione entro limiti controllabili. Che il sistema di sicurezza Iron Dome avrebbe bloccato i lanci di razzi. Soprattutto che Hamas non sarebbe entrata direttamente nel conflitto, lasciando il compito di “disturbare” il nemico sionista a fazioni dotate di missili meno precisi, come la Jihad islamica. Gruppo che ha organizzato per tre anni le “Unità di disturbo notturno” che lanciavano palloncini incendiari che scavalcavano le recinzioni e atterravano sui campi coltivati o lanciavano razzi che ricadevano nel territorio palestinese (provocando spesso vittime tra la popolazione) o venivano intercettati da Iron Dome.

Tutto è cambiato dal 7 ottobre

Certo, questo era un problema per Israele, soprattutto quando il lancio di ordigni impediva la circolazione nelle strade e costringeva a chiudere le scuole, ma in ogni caso un rischio calcolabile e contenuto. Fino al 7 ottobre, quando l’irruzione dei terroristi, le 1.200 vittime civili, i gravi ritardi nell’intervento dell’esercito, che tutti pensavano pronto e allertato, la presa degli ostaggi hanno posto Israele di fronte ad una drammatica realtà. E da quel momento gli obiettivi di Israele sono cambiati: la liberazione degli ostaggi e la distruzione di Hamas, considerato non più uno scomodo ma tutto sommato controllabile nemico, ma una minaccia per la sicurezza di tutto il paese.

Perché è stato chiaro che l’azione della fazione fondamentalista aveva uno scopo che andava al di là della vendetta o dell’attacco al nemico, ma puntava a minare la sicurezza di Israele all’interno dei suoi confini, quella sicurezza che sembrava garantita dal muro eretto dopo la seconda intifada del 2002. Un muro che aveva limitato gli attacchi terroristici, sia dei kamikaze imbottiti di esplosivi sia delle azioni spontanee della intifada dei coltelli, le infiltrazioni e gli attacchi alle pattuglie di militari condotte spesso da ragazzi giovanissimi. Israele conosceva bene i gruppi armati e pensava di poterli smantellare, attaccando i capi che si erano nascosti nei campi profughi di Jenine o Nablus o Betlemme con operazioni massicce, alcune vittime e tanti arresti.

Il vero nemico

Questa è la tattica che ha dominato per anni. Operazioni di contenimento, per quanto sanguinose, soprattutto per i palestinesi, rappresaglie dopo gli attentati, bombardamenti dopo i lanci dei razzi. Ora è guerra vera: «Una guerra – dice il capo dello stato maggiore israeliano, Herzi Halevi – i cui obiettivi sono essenziali e non facili da raggiungere, che si svolge in un’area complessa. Tuttavia è una guerra che continuerà per molti mesi ancora e in cui utilizzeremo metodi differenti, perché l’obiettivo finale è lontano. Non ci sono soluzioni magiche, non ci sono scorciatoie nell’operazione che ha come obiettivo quello di smantellare il terrorismo, se non una tenace e determinata battaglia. E noi siamo veramente, veramente determinati».

Il che, in sostanza, vuol dire che Israele non vuole e non può fermarsi fin quando Hamas non sarà del tutto smantellata e non solo a Gaza, ma in tutti gli stati dove i capi si nascondono. Compreso il Qatar, che pure sta mediando per gli ostaggi, per arrivare fino in Iran, che è e resta nella visione israeliana il grande manovratore del terrorismo antisionista. Il più pericoloso in ogni caso, anche per via degli impianti nucleari, di cui ora si parla poco, ma che si teme continuino a lavorare, sia pure nell’ombra e a ritmi ridotti, alla costruzione di una bomba atomica. Il che costringerebbe Israele ad intervenire direttamente per impedire che Teheran disponga di un’arma nucleare.

Nella Striscia di Gaza

Halevi ammette: «Sono accadute molte cose che non avevamo previsto e ne abbiamo scoperte altre di cui non eravamo a conoscenza prima di entrare sul terreno. Questo è il motivo per cui questa guerra è stata definita il “Regno della incertezza”. Ma in termini generali tutto sta avvenendo come l’Idf aveva pianificato». Certo non era stato pianificato che il “fuoco amico” avrebbe ucciso almeno una ventina di soldati israeliani, su oltre 160 caduti. Che alcuni ostaggi, almeno tre, sarebbero stati uccisi dagli stessi incursori israeliani, che la resistenza di Hamas continuasse casa per casa, si sapeva che molte basi dei terroristi erano state costruite sotto scuole, ospedali, moschee, ma non la reale estensione della ragnatela di cunicoli, che ha portato bombardamenti a catena in ogni zona, fino a colpire la stessa Mezzaluna rossa e il suo ospedale.

Ora Israele ritiene di avere un sufficiente controllo del Nord della Striscia e si concentra sul centro per poi passare al Sud. Gli esperti dicono: ci vorranno ancora settimane, mesi. Il centro dei combattimenti nella Striscia, dopo Gaza City, è Kahn Younis, dove si pensa si siano rifugiati i capi di Hamas e dove sarebbero stati portati gli ostaggi ancora in mano ai terroristi. È lì che si ritiene che Hamas abbia ritirato i suoi battaglioni.

Dopo i bombardamenti l’Idf deve scendere sul territorio. Scendere nei tunnel senza fine. Attraversare le strade costellate di case minate. Gli Stati Uniti chiedono che sia fatto di tutto per risparmiare i civili e per questo il portavoce dell’esercito parla, sia pur vagamente, di strategie differenziate, di raid limitati verso obiettivi specifici individuati grazie alle informazioni dell’intelligence, ma le notizie che arrivano ogni giorno sembrano smentirlo.

La strategia attuale di Israele e di Hamas

Secondo l’autorevole David Horowitz, editorialista di Times of Israel, preservare i due milioni di civili, costretti a spostarsi da Nord al centro, e poi a Sud e poi spostarsi di nuovo al Nord, è davvero “complesso”. La guerra sul territorio è completata a metà, ma «è chiaro alla leadership di Hamas, nessuna delle cui figure chiave è stata ancora uccisa o catturata, a cominciare dal leader Yahya Sinwar, che probabilità di sopravvivere per loro e i loro barbari terroristi sono ancora alte». Perché Israele non vuole fermarsi ma la pressione del mondo per il cessate il fuoco sta diventando sempre più forte e, secondo Horowitz che pure è considerato un moderato, questo dà ad Hamas la speranza di potersi riorganizzare e ricompattare le forze.

Un segnale chiaro di cosa pensa l’opinione pubblica israeliana: siamo ad un punto di non ritorno. Nessuna tregua perché ogni tregua vuol dire concedere una possibilità ad Hamas. E Israele non si fida ormai di nessuno se non di se stesso. Il disegno finale è sempre lo stesso: la sconfitta totale di Hamas, guardando anche al Libano, dove è presente Hezbollah, il partito di Dio, filoiraniano, dotato di armi che sta usando con parsimonia ma sempre più frequentemente.

Cosa aspetta l’Iran?

Il punto è: Hezbollah sta aiutando Hamas costringendo Israele a mantenere un forte schieramento sul fronte Nord o vuole scendere in campo? Finora la risposta del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è stata ambigua nella forma ma chiara nella sostanza: siamo con i palestinesi, siamo nemici di Israele ma la guerra è un fatto che non ci impegna direttamente. È un messaggio che echeggia la posizione dell’Iran. E nessuno sa dire se si tratta di strategia per arrivare ad un punto in cui Israele sia abbastanza stremato da poter essere attaccato o di una tattica che aspetta gli sviluppi della situazione per valutare il dopo.

Per ora ci si è limitati a lanci di razzi antitank che colpiscono i villaggi israeliani nel Nord, missili che volano bassi sfuggendo alla difesa di Iron Dome. Certo la zona è presidiata da diecimila soldati Onu (più di mille italiani), ma le regole di ingaggio impediscono qualsiasi intervento. Dovrebbero casomai appoggiare l’inesistente esercito regolare libanese, che non si spinge a Sud del fiume Litani e di Sidone. Il mondo lì c’è, con contingenti di tutti i paesi, ma con le mani legate. Devono, e possono, solo assistere il governo libanese nel garantire l’afflusso degli aiuti umanitari e aiutare il ritorno sicuro degli sfollati.

Il ruolo delle grandi potenze

Uno scenario più che complesso. Dove le grandi potenze mondiali giocano il loro ruolo e altre cercando di inserirsi. Ognuna con interessi e obiettivi diversi.

Gli Stati Uniti sono da sempre il migliore alleato di Israele ma Joe Biden deve fare i conti con le elezioni. Una tregua umanitaria gli farebbe comodo, una ripresa della diplomazia gli permetterebbe di rilanciare la soluzione “a due stati” che quasi tutti i paesi del mondo, compreso il Vaticano, invocano. Ma i due stati, uno esistente (Israele) e l’altro mai costituito realmente, non sembrano disposti ad agevolare la soluzione. Sono lontani i tempi dello spirito di Oslo. La Russia mantiene la sua posizione filosiriana ma neppure lontana da Israele, e pare ben felice che la guerra di Gaza oscuri quella in Ucraina. La Cina cerca di inserirsi nell’area come nuovo attore. Ancora una volta, l’Europa sembra divisa nell’azione concreta, pur non facendo mancare nobili intenti umanitari. L’Onu, impotente, si limita a pallide dichiarazioni “non vincolanti”. I paesi arabi divisi non hanno trovato nessun accordo su come intervenire per un cessate il fuoco.

Tutti, a parole, sembrano preoccupati che il conflitto si allarghi e per la sorte dei profughi, dei rifugiati, degli sfollati. Ma finora sembrano prevalere i veti incrociati e gli interessi dei trafficanti di armi. La guerra – ce lo ha ricordato il Papa – è un affare. Questa follia senza scuse ha anche una sua perversa ragion d’essere. Inconfessabile ma concretissima. Ricordate il film di Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza?

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