La campagna per vietare agli ospedali cattolici di essere cattolici
Per gentile concessione di First Things, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Wesley J. Smith, senior fellow del Discovery Institute, apparso mercoledì 15aprile nel sito della rivista americana (qui l’originale in inglese).
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Gli ospedali cattolici sono sotto attacco incessante da parte di prestigiose riviste mediche, media e avvocati. L’obiettivo è costringere queste venerande istituzioni a sostituire i propri metodi di esercizio della medicina fondati sulla fede con standard morali non religiosi che esludono la sacralità della vita umana.
Un recente articolo del New England Journal of Medicine – forse la pubblicazione scientifica più importante del mondo – illustra bene la minaccia che incombe sulla libertà di coscienza dei medici. Ian D. Wolfe e Thaddeus M. Pope, due illustri bioeticisti, si dicono preoccupati perché negli Stati Uniti un ospedale su sei è «affiliato a un sistema sanitario cattolico». Questo è un problema, ai loro occhi, poiché gli ospedali di affiliazione religiosa spesso «rifiutano di fornire servizi sanitari consentiti dalla legge in base a strutture di credenze istituzionali». Gli autori si riferiscono a servizi come l’aborto, la sterilizzazione (in assenza di patologie), il suicidio assistito (là dove sia stato legalizzato) e gli interventi chirurgici per la riassegnazione del sesso che alterano le funzioni biologiche normali del corpo. Rifiutare simili procedure, dichiarano gli autori, porta a «rischi concreti per la facoltà di scelta e la sicurezza del paziente e per il principio fondamentale dell’autonomia».
Rischi per la facoltà di scelta del paziente? A volte sì. Se una donna richiede un aborto e l’ospedale dice no, ella non otterrà quel che vuole. Ma i rischi per la sicurezza? Le Ethical and Religious Directives for Catholic Health Care Services [linee guida etiche e religiose per le strutture sanitarie cattoliche, ndt] consentono agli ospedali cattolici di rifiutare interventi che violino il credo della Chiesa, ciò nonostante prescrivono che tutti i pazienti ricevano cure adeguate. Questo comporta fornire «ogni ragionevole informazione sulla natura essenziale della terapia proposta e sui suoi benefici; i rischi che comporta, gli effetti collaterali, le conseguenze e i costi; nonché su ogni alternativa ragionevole e moralmente legittima». Nella pratica, può voler dire anche indirizzare i pazienti verso istituzioni non cattoliche.
Le preoccupazioni riguardo alla “sicurezza” probabilmente sono piuttosto un modo elusivo per nascondere un pregiudizio antireligioso. Charles C. Camosy, professore associato di Etica teologica e sociale alla Fordham University, ritiene che in molte circostanze la ragione dell’attacco alla sanità cattolica «è una questione di puro potere. Alcune personalità influenti non vogliono che determinate scelte [mediche] possano essere negate, così utilizzano il loro potere per far sì che le cose vadano come vogliono loro».
Wolfe e Pope sollecitano gli Stati a imporre per legge agli ospedali cattolici di offrire procedure mediche vietate dalla dottrina della Chiesa qualora i pazienti le richiedano, soprattutto nel caso in cui gruppi ospedalieri di matrice confessionale si fondano con istituzioni laiche. Scrivono i due:
«I legislatori statali potrebbero… richiedere un voto pubblico prima di approvare fusioni di ospedali che abbiano un impatto sull’accesso di una comunità ai servizi. Senza adeguate tutele, tuttavia, affidarsi a un voto per l’approvazione di tali fusioni potrebbe minare i diritti dei gruppi che si ritrovino in minoranza. Noi riteniamo dunque che la soluzione più efficace sia assicurare che determinati servizi sanitari siano tutelati dalla legge e che l’accesso agli stessi non sia ingiustamente compromesso da eventuali fusioni ospedaliere».
In altre parole, Wolfe e Pope vorrebbero vietare agli ospedali cattolici di essere “cattolici”, pur riconoscendo che una parte minoritaria di fusioni tra ospedali cattolici e laici salvano dalla chiusura istituti in sofferenza finanziaria. In tali casi, si tratta di scegliere tra il lasciare che un ospedale locale diventi cattolico e il non avere proprio un ospedale.
La maggioranza delle fusioni non riguardano situazioni finanziarie così disperate. Ma, anche qui, queste operazioni possono significare miglioramenti della qualità delle cure superiori alle capacità del singolo ospedale. Bill Cox, presidente e amministratore delegato della Alliance of Catholic Healthcare, mi fa un esempio: «Far parte di un gruppo di più istituti consente di realizzare economie di scala. Mettendo insieme specialisti e identificando le migliori pratiche in diverse aree, possiamo offrire un know-how e un’esperienza di cui altrimenti le comunità poco servite difficilmente potrebbero beneficiare». Uno specialista di Los Angeles può interfacciarsi a distanza [telehealth, ndt] con pazienti residenti in posti dove i medici preparati mancano o sono distanti. Mi dice Cox: «In Alaska, il Providence Saint Joseph Health [un ospedale cattolico di Anchorage] effettua 1.000 visite a distanza ogni giorno in tutto il territorio statale».
Per di più, se gli Stati si permettono in sostanza di “vietare” agli ospedali religiosi che si fondono con quelli laici di aderire agli insegnamenti della propria fede, non c’è ragione logica per cui tale imposizione autoritaria sia applicata soltanto in caso di fusione. Dopo tutto, i problemi dell’accesso ai servizi, della coscienza dei medici, della liceità di pratiche controverse e della libertà religiosa sono tali sia quando un ospedale si fonde con un ente religioso sia quando un ospedale cattolico è al servizio di una comunità da 100 anni.
Gli attacchi agli ospedali cattolici hanno decisamente superato la sfera teoretica. L’anno scorso, nell’ambito di uno dei processi alla libertà religiosa più importanti del paese, la Corte di appello della California ha dato l’ok a un ricorso contro un ospedale cattolico noto come Dignity Health (caso Minton v Dignity Health). Un paziente transgender ha sporto denuncia perché l’istituto si è rifiutato di effettuare un’isterectomia finalizzata al cambio di sesso. Il rifiuto del Dignity Health aveva un duplice fondamento. Primo, l’intervento chirurgico avrebbe comportato la rimozione di un utero sano. Secondo le linee guida sanitarie della Chiesa cattolica, si può intervenire sulle normali funzioni fisiche solo allo scopo di trattare o prevenire patologie. Secondo, l’operazione avrebbe reso sterile il paziente. Per la dottrina morale cattolica, gli atti medici che provocano sterilizzazione possono essere eseguiti soltanto nel trattamento di malattie.
Si noti che queste linee guida cattoliche valgono universalmente, non riguardano gruppi specifici di pazienti. È lo scopo della procedura a essere in discussione, non il paziente. Un ospedale cattolico perciò negherebbe a un uomo una vasectomia, ma se questi avesse un cancro ai testicoli, l’intervento che lo renderebbe sterile gli sarebbe consentito, perché lo scopo della pratica sarebbe quello di curare una grave patologia. D’altro canto, in un ospedale cattolico un paziente transgender con un braccio rotto riceverebbe le stesse cure di qualunque altro paziente, a prescindere dalla sua identità sessuale.
La Aclu [American Civil Liberties Union, ndt] e altri hanno intentato cause contro ospedali cattolici in diverse località di tutto il paese perché gli stessi si rifiutano di offrire servizi proibiti. Fino a oggi hanno sempre fallito. Lo stesso contenzioso contro il Dignity Health inizialmente era stato rigettato. Ma la Corte di appello della California, con una decisione sconvolgente, ha riabilitato la causa, stabilendo che il rifiuto di rimuovere l’utero sano della persona transgender costituisce una violazione della legge antidiscriminazione dello Stato non tutelata dalla libertà religiosa. Se la causa arriverà a processo – alla Corte suprema degli Stati Uniti è appena giunta una richiesta di udienza – e se la giuria comminerà ampi risarcimenti danni, le coercizioni nei confronti della sanità cattolica subiranno un’accelerazione. E non solo riguardo ai problemi dei transgender. Dopo tutto, se gli ospedali di matrice confessionale possono subire sanzioni per il rifiuto di amputare organi sani in base all’identità soggettiva del paziente, perché non possono essere obbligati anche a consentire gli aborti o ad assistere i suicidi (se legalizzati)? Perché, a dirla tutta, non possono essere costretti a contraddire qualunque principio dogmatico cattolico se questo viola la mentalità laica?
Secondo Cox, se i laicisti l’avranno vinta, «queste istituzioni dovranno chiudere i battenti oppure cessare di essere cattoliche». Un bel dilemma per un’istituzione confessionale. Immaginatevi che impatto negativo avrebbe la chiusura di metà di questi ospedali. Secondo i calcoli dell’Alliance, gli istituti cattolici costituiscono il 14,8 per cento dei reparti di terapia intensiva, rappresentano oltre 11.426 posti letto autorizzati e 2.664.205 visite in pronto soccorso (16,9 per cento del totale), e garantiscono 1,79 miliardi di dollari di cure gratuite o non rimborsate dai servizi sanitari. Gli ospedali cattolici hanno infatti la missione specifica di soccorrere i poveri, e lo fanno. Cox mi dice che gli ospedali di Dignity Health forniscono più servizi MediCal (il Medicaid californiano) di qualunque altro gruppo ospedaliero statale.
E questo non vale solo per la California. Una causa simile al contenzioso contro Dignity Health è stata intentata nel New Jersey nel 2017 da Lambda Lega. La causa è pendente. Il moltiplicarsi delle denunce contro le istituzioni sanitarie cattoliche minaccia il diritto fondamentale al libero esercizio della religione. Inoltre, costringere gli ospedali cattolici a laicizzarsi distruggerebbe anche il rispetto reciproco, il collante che tiene legate società eterogenee come la nostra. Se Wolfe e Pope otterranno il loro obiettivo, e se le cause come quella intentata contro Dignity Health andranno in porto, possiamo dire addio all’E Pluribus Unum.
Foto pxhere.com
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