Articolo tratto dall’Osservatore romano – «Il premio non è per me, ma per la nostra gente sofferente e per l’Iraq, per tutti coloro che cercano la pace e la stabilità e un mondo migliore in cui tutti possano vivere nella gioia e con dignità». È quanto ha dichiarato il patriarca di Baghdad dei Caldei, Louis Raphaël i Sako, che ha ricevuto, lunedì, a Jelsi (Campobasso) il premio internazionale «La Traglia – Etnie e comunità», riconoscimento che ogni anno viene attribuito a una personalità impegnata a valorizzare e a difendere le tradizioni, l’ambiente, i diritti dell’uomo e l’identità culturale e religiosa delle minoranze etniche. All’evento erano presenti, tra gli altri, monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano, monsignor Giulio Mencuccini, vescovo di Sanggau (Indonesia), padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala stampa della Santa Sede, l’ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede, Habeeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr, il sindaco di Jelsi, Salvatore D’Amico, e l’ideatore del premio internazionale, Pierluigi Giorgio.
Dal 2003 — ha ricordato il patriarca — 62 chiese sono state attaccate e 1264 sono stati i cristiani uccisi. «In Iraq viviamo il calvario da anni. Una lunga catena di guerre, una dittatura atroce, un fanatismo diventato terrorismo. Un jihadista crede di avere Dio (Allah) dalla sua parte. È un pericolo per tutti. Perciò questi jihadisti — ha proseguito — devono essere combattuti in modo sistematico ma anche la loro ideologia deve essere sconfitta. Dentro l’islam si deve prendere coscienza del pericolo». Secondo il patriarca, in Iraq «manca un approccio culturale rispettoso della pluralità e dell’intelligenza di questo Paese», dove viveva una popolazione fra le più istruite della regione: «Ci vuole un cambiamento di mentalità con programmi di educazione religiosa aggiornati». Monsignor Sako ha auspicato anche che ci siano maggiori elementi di laicità nello Stato: «Tutti i cittadini devono avere uguali diritti e doveri, nonostante la loro religione».
Il patriarca si è soffermato sul tema del martirio: «Per noi cristiani dell’Iraq — ha spiegato — il martirio è il carisma della nostra Chiesa. In quanto minoranza, siamo di fronte a difficoltà e sacrifici, ma siamo coscienti che essere testimoni di Cristo può significare giungere al martirio». Il patriarca ha ricordato come fede e martirio nella lingua araba hanno la stessa radice: «Shahid wa shahad. Ci ammazzano per la nostra fede. Per noi la fede non è questione ideologica, o speculazione teologica, ma una realtà mistica d’amore. La fede è un incontro personale con Cristo che ci conosce, ci ama e a cui ci doniamo totalmente. Per lui bisogna andare sempre oltre, fino al sacrificio. Non vogliamo abbandonare la nostra patria svuotandola della presenza cristiana. Lì è la nostra storia, l’Iraq è la nostra identità. Abbiamo una vocazione, dobbiamo testimoniare la gioia del Vangelo».
I cristiani iracheni non sono soli: «L’amicizia, la solidarietà e il sostegno dei nostri fratelli e sorelle dell’Occidente ci danno il coraggio di resistere», «sapere che ci siete vicini ci spinge a coltivare una vita comune, in pace e in armonia, con i nostri fratelli musulmani. I quali ci dicono sempre ”voi siete diversi, perché amate, perdonate, siete aperti e pacifici”».