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Iraq in balia dell’esercito jihadista. «Ma gli americani devono stare tranquilli: se intervengono chi bombardano?»

«Obama vuole appoggiare Maliki, Assad e l'Iran? O gli islamisti dell'Isil e i sunniti? In dodici anni Washington ha già fatto abbastanza errori». Intervista a Stefano Silvestri, ex presidente dell'Istituto affari esteri e consigliere del governo Renzi

Francesco Amicone
18/06/2014 - 5:00
Esteri
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«Gli americani devono stare tranquilli. In dodici anni hanno già fatto abbastanza errori, in Medio Oriente. Oggi hanno le idee largamente confuse: chi vogliono bombardare in Iraq?». Lo dice a tempi.it Stefano Silvestri, ex presidente dell’Istituto affari internazionali e consulente del governo italiano in materia di difesa e politica estera. Per Silvestri, di fronte all’avanzata dell’Isil nel nord dell’Iraq, «il quesito che in queste ore gli americani si pongono e a cui non sanno rispondere non è “se” bombardare ma “chi” bombardare». «Obama vuole appoggiare Maliki, Assad e l’Iran? Oppure i sunniti e gli jihadisti?», si chiede Silvestri.

Dalle ultime comunicazioni della Casa Bianca, sembra che Obama, oltre ad approvare l’invio di 275 militari per difendere l’ambasciata statunitense a Baghadad, stia valutando l’invio di droni e un centinaio di addestratori nella capitale irachena.
Non sarà facile per Obama non intervenire militarmente: è sempre più criticato in patria per il suo approccio ai problemi di politica estera. In questo caso, però, neanche i suoi oppositori sanno cosa fare. Certamente, dare garanzie al governo di Maliki, uno dei responsabili della ribellione sunnita, mi pare una soluzione sbagliata.

Colpa degli Stati Uniti e del premier iracheno Al Maliki se il nord dell’Iraq è finito nelle mani degli jihadisti?
Certamente il comportamento degli americani e del governo sciita in Iraq sono concause che hanno contribuito a creare questa situazione. L’avversità verso il governo di Maliki ha determinato il consolidamento della alleanza fra jihadisti, milizie sunnite e baathisti iracheni. È difficile dire però che senza Maliki le cose sarebbero andate diversamente. Il premier iracheno ha discriminato i sunniti e ha violato gli accordi con loro, durante le elezioni e dopo. Rappresenta certamente una delle massime ragioni per la ribellione, ma ce ne sono altre di ordine storico, come il dominio tradizionale sunnita sull’Iraq, finito con la caduta di Saddam Hussein. Ora, molto probabilmente, si inaugurerà un’altra fase storica per la nazione, con la frammentazione: ci sarà un Iraq sunnita, nel nord ovest, uno curdo, nel nord est, e uno sciita, nel sud.

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Una delle parti avrà la meglio?
Per il momento, le forze sul terreno sono ben bilanciate. Da una parte ci sono gli sciiti, che controllano la capitale. Hanno un alleato forte, l’Iran, e puntano a un accordo anche con gli Stati Uniti. Dall’altra ci sono i sunniti, che controllano le provincie di Ninive e Anbar, e che hanno non solo l’appoggio dell’Arabia Saudita e forse anche della Turchia.

La rapida conquista del nord dell’Iraq è stata favorita dall’alleanza fra sunniti e jihadisti?
Sì. Da molto tempo Maliki cerca di sgombrare milizie sunnite e jihadisti dai dintorni di Baghdad. A Falluja, poco distante dalla capitale irachena, sono asserragliati da gennaio. Ciò che ha favorito la concentrazione delle forze jihadiste in Iraq, tuttavia, sono state alcune sconfitte in Siria. L’Isil, respinta da Assad, ha deciso di allargare il territorio verso est, al di là della frontiera.

 

Perché i sunniti iracheni stanno con l’Isil?
In questa fase i sunniti vedono l’Isil come uno strumento utile per le loro rivendicazioni. Teniamo conto che in Iraq l’Isil ha fatto un reclutamento indiscriminato. Non tutti sono jihadisti. Ora ne fanno parte anche ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein: certamente loro non sono dei fanatici religiosi. C’è un po’ di tutto nella compagine che sta accerchiando Baghdad. Bisognerà vedere cosa verrà fuori. Se vincerà l’Isil e si instaurerà il califfato, oppure se prevarranno, come è spesso accaduto, l’élite e le tribù sunnite irachene.

Questa situazione quali ripercussioni potrebbe avere in Siria?
Non si può dire. In Siria, il tentativo di Assad di far fuori l’opposizione moderata e trasformare una guerra civile in una guerra contro i terroristi, per recuperare legittimità internazionale, sembra andare a suo favore. Tuttavia l’opposizione moderata si sta organizzando meglio e sembra creare alcuni fastidi persino all’Isil.

Quale potrebbe essere una soluzione del conflitto?
L’unico spiraglio è quello diplomatico. Più che dispiegare eserciti, occorrerebbe ricreare una coerenza nel campo sunnita. Gli Stati Uniti dovrebbero caldeggiare un dialogo fra Arabia Saudita, Emirati Arabi, l’Egitto appoggiato dai salafiti e la Turchia, protettrice dei Fratelli Musulmani. Solo così si potrà rimettere ordine.

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