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Io, unica israeliana alla conferenza delle donne per la pace in Medio Oriente. E tutte quelle facce ostili che diventano amiche

«C’è qui una donna israeliana, non volevo avvicinarmi né parlarle ma ho scoperto che è una bella persona!». L'avventura di una ebrea italiana alla Women's Conference for Peace in the Middle East

Angelica Edna Calo Livne
18/05/2014 - 1:00
Esteri
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wfwpQuando ho ricevuto l’invito di Carolyn Handschin, dirigente all’Onu di Ginevra, il primo pensiero è stato di cercare un’altra partecipante da Israele con cui attraversare il confine al Hussein Bridge, vicino a Beit Shean, con la quale raggiungere Amman, in Giordania, dove si svolgeva il diciottesimo convegno internazionale “Donne unite per raggiungere la pace in Medio Oriente e nel mondo”.

Dopo aver realizzato che sarei stata l’unica rappresentante israeliana ho cominciato a ricevere i primi messaggi allarmati dalle rappresentanti giapponesi sponsorizzatrici dell’evento che chiedevano gentilmente di presentarmi con il passaporto italiano e che, anzi, sarebbero state disposte a procurarmi un biglietto aereo da Tel Aviv a Roma per poter raggiungere Amman dall’Italia.

A volte mi diverto ad ascoltare le mie due voci, quella del cuore e quella della mente, che discutono, si interrogano, affabulano e mettono in guardia e già so dall’inizio quale delle due avrà il sopravvento. E anche stavolta ha vinto il cuore. Bisogna partire in ogni caso, perché è sempre meglio “esserci” e sono partita da sola: un taxi fino al confine e un altro fino ad Amman.

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Arrivata al grande hotel, che domina la città dall’alto di un colle, vengo travolta dall’emozione: su grandi divani siedono donne che chiacchierano animatamente in tante lingue. Con la mano tesa mi rivolgo dall’una all’altra: «Mi chiamo Angelica, sono nata in Italia ma vivo da 39 anni in Galilea, in Israele». Per la frazione di un secondo sento una sorta di gelo, poi un sorriso stupito e curioso si disegna su ogni volto (quelli che posso vedere perché molti sono completamente velati). Stringo la mano a donne del Kuwait, dell’Iran, della Siria, Cipro, Europa, Mediterraneo, America.

Ci sono 120 donne. Sento la linfa che mi scorre nel corpo vorticosamente, uno shake di adrenalina e endorfine a dosi esagerate! Quando porgo la mano a una bella signora elegantissima la ritira con un sussulto: «Israel? Oh my God! Mio Dio, non posso, non posso. Al mio Paese è proibito parlare con israeliani… è la legge…». Si scusa mortificata. È libanese. Con un grande sorriso le dico che sono sua vicina, che abito proprio al confine, in un kibbutz. Si gira e si allontana frettolosamente, come se le fosse apparsa un’immagine demoniaca.

Il convegno inizia. Si parla di solidarietà tra le donne per combattere la violenza e la discriminazione, si sollecita al riconoscimento nel lavoro, all’annullamento di tante “tradizioni” volute dall’uomo che ancora consentono la circoncisione femminile e il delitto d’onore. Mi sembra di vivere un sogno, io in mezzo a donne alle quali non avrei mai immaginato di potermi avvicinare, avvocatesse, sociologhe, professoresse all’università.

A colazione mi siedo accanto alla bella signora libanese, le sorrido e le prometto che non dirò nulla. Sorride anche lei e mi risponde in italiano che sua figlia studia a Firenze. La mamma che c’è in noi prorompe con forza e iniziamo a raccontarci dei nostri figli, della nostra vita. Ci domandiamo mille domande. E torniamo ai lavori.

E il momento che temevo giunge con forza, inaspettato e mi coglie di sopresa. La rappresentante palestinese, di Gaza, inizia il suo intervento: inizia a raccontare della mancanza di acqua, di elettricità, «Come possono essere così tranquille queste donne quando Gaza è in condizioni disastrose a causa dell’occupazione?». Sento che il ritmo del mio cuore cambia vertiginosamente. Mi guardo intorno, le nuove amiche cipriote, giapponesi, coreane mi fanno segno di rimanere calma. La donna libanese chiede improvvisamente la parola: «Questo non è il modo di aprirsi e cooperare. Non dimenticate che anche il Libano è stato a lungo occupato dalla Siria! Solo cooperando e dialogando si può ottenere e cambiare. Dobbiamo cercare dei partner e possiamo imparare qualcosa da questo piccolo Paese vicino a noi!». Poi volgendosi verso di me dice: «C’è qui una donna israeliana, non volevo avvicinarmi né parlarle ma ho scoperto che è una bella persona!».

Tutti gli sguardi si volgono verso di me. Una decina di donne iniziano a gridare concitatamente accuse verso Israele. L’ora del mio intervento giunge. Raccolgo tutte le mie forze per rimanere chi sono. Per continuare ad essere empatica, comprensiva, per mantenere la mia coscienza ebraica, e apro dicendo che capisco la sofferenza di chi ha parlato prima di me e racconto del mio teatro umanistico multiculturale, leggo a voce alta i pensieri scritti qualche giorno fa dai ragazzi palestinesi e giordani che hanno assistito alla rappresentazione del nostro spettacolo Beresheet. Inizio a mostrare un breve video dove i ragazzi in ebraico e in arabo insegnano agli adulti che la collaborazione è possibile. Improvvisamente il volume dell’amplificatore si abbassa, non funziona, la presentatrice egiziana mi consiglia di smettere tanto si è capito cosa volevo dire e non c’è abbastanza tempo per la relatrice cipriota, ma quest’ultima, Chara, risponde: «Va benissimo, posso accorciare il mio intervento. Ti prego continua è bellissimo ed importante ciò che stiamo vedendo».

E me ne torno a casa… con tanti volti nuovi nel cuore e anche tante domande e il bisogno di non perdere la speranza anche se la sofferenza è ancora grande! Ho visto donne di Cipro, del nord e del sud, che oggi sono amiche e collaborano. Ci sono stati momenti in cui ero sola, unica donna d’Israele… con la testa che sembrava scoppiare, con le lacrime che sembravano dover scrosciare da un momento all’altro… ma ho ricordato a tutte che anche gli ospedali di Israele hanno aperto le porte ai rifugiati siriani, che decine di organizzazioni operano in tutta l’area attraverso la musica, l’arte, il commercio che, per un vero cambiamento, dobbiamo collaborare noi donne, noi madri con coraggio, col cuore. Alla fine di tutto mi sento sfinita ma fiera di non aver dato retta alla voce che mi esortava ad alzarmi ed uscire dalla sala. E, alla fine, ricevo un bell’abbraccio anche dalle donne del Libano.

Tags: ammanBaqer QalibafBeresheetgazaGinevragiordaniaIsraelekibbutzoccupazioneONUSiriatel avivterritori occupati
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