Il veleno nascosto nel postumanesimo
Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio 2019.
L’intervista a Mark Gasson, uno dei più noti ricercatori nel campo delle interfacce neurali cervello-computer e in generale delle ipotesi di fusione uomo-macchina, evidenzia le tendenze ormai correnti nel campo. Da un lato, lo studioso non può non essere consapevole di alcuni rischi fin troppo evidenti; ma dall’altro ai suoi occhi il senso dell’inevitabilità, e soprattutto quello di un bilancio comunque positivo della trasformazione in atto, prevale nettamente.
È vero che prevedere il futuro è esercizio tra i più rischiosi, ma a mio avviso, almeno per non farsi troppo facili illusioni, l’inevitabilità è alquanto plausibile. In realtà abbastanza poco degli sviluppi tecnologici degli ultimi anni è utile in senso stringente: ma quantomeno essi sono comodi. Pagare più velocemente, grazie a carte di credito smaterializzate, merci online cui non avremmo altrimenti avuto accesso in negozi fisici; oppure fare ricerche senza spostarci da casa grazie alla quantità smisurata di dati e testi che è possibile consultare e scaricare a distanza: sono solo due esempi, molto diversi tra loro, di semplificazioni già correnti e che ci coinvolgono un po’ tutti. Gasson insiste inoltre sul fatto che i processi di miniaturizzazione portano insensibilmente a cancellare la distinzione tra interno ed esterno, come tra uomo e macchina. Si scivola, per esempio, da apparecchi acustici man mano più piccoli, a impianti cocleari, a ipotesi di vere e proprie macchine terapeutiche sostitutive dell’orecchio interno e collocate dentro di noi. Come arrestare un percorso del genere, come definire un limite non oltrepassabile che sia non solo enunciato ma effettivamente rispettato?
Ma se è così, diventa ancora più necessario essere consapevoli dei prezzi da pagare, in modo da essere preparati e cercare di approntare contromisure. Lo stesso Gasson, come detto, di tali prezzi ne riconosce almeno uno. Si tratta in sostanza della questione delicatissima della privacy. Inserire microchip nel corpo significa inevitabilmente aprire una porta bidirezionale (e tutt’altro che facile da rimuovere, tra l’altro). Bizzarramente, il delirio di alcuni complottisti su microchip in grado di controllarci rischia di avverarsi. In effetti uno dei dati significativi della trasformazione in corso è che le visioni fantascientifiche qualche volta sembrano perfino timide rispetto alle estrapolazioni di fenomeni già in atto. La privacy è una delle prime vittime, come già oggi siamo perfettamente in grado di vedere, dell’avvento delle nuove tecnologie. Qualcuno ha detto che è un prezzo che specialmente le nuove generazioni accettano senza batter ciglio: non ne percepiscono appieno il valore. In realtà privacy significa una dimensione davvero essenziale: lo spazio esclusivo, rigorosamente individuale e privato, che ciascuno di noi possiede e che ha rappresentato finora la dimensione che nessun totalitarismo ha saputo spogliare alla persona.
Ma esiste almeno un secondo livello di rischio, più fondamentale e se possibile più grave; e che Gasson, non per caso, non riesce neanche a inquadrare. Il suo progetto, e di numerosi altri teorici collocati alla giunzione di IA (Intelligenza Artificiale), bioetica, transumanesimo, è piuttosto esplicito. Si tratta dell’abolizione teorica ma prima ancora pratica della distinzione tra terapia e potenziamento, e ciò in virtù del progetto di una liberazione dai limiti biologici connaturati, finora, alla condizione umana, come dice esplicitamente nell’ultima risposta.
Il fatto è che nella prospettiva di cui Gasson si fa portavoce, diventa sostanzialmente invisibile non solo qualsiasi normatività e normalità dell’essere umano, ma anzi la stessa possibilità di pensare qualcosa del genere. E così facendo nulla può più arrestare un’idea di potenziamento (enhancement) sempre ricominciato, all’infinito. Il problema è: potenziamento rispetto a cosa? In realtà perché si possa parlare di potenziamento non possiamo non avere un’idea di ciò che è ottimale o comunque benefico rispetto all’essere umano. Una teleologia dell’uomo in questo senso è sempre necessaria.
Al contrario, una trasformazione radicale finisce in realtà per implicare una tale alterazione da far sì che di uomo si rischi di non poter più parlare. Detto altrimenti, andare troppo oltre fino a trasformare ciò che siamo, cancella l’essere umano, nella sua realtà di fragilità, nella sua condizione che lo definisce in profondità. Non a caso si parla, come accennavo, di trans, o post, umanesimo. In effetti è proprio l’istanza paradigmatica dell’uomo che oggi è attaccata da molteplici fronti, il che rende così pervasiva l’istanza postumanista.
Il punto fondamentale allora è se vogliamo assumere fino in fondo l’umanità anziché immaginarne una liberazione di tipo narcisistico: un’immunità da ogni rischio, una sorta di riscatto da ogni fragilità. Se restiamo nell’umano, ci collochiamo all’interno della tradizione più nobile del nostro passato, l’umanesimo di matrice classica e cristiana: e saremo in grado di cogliere la natura ambigua della tecnica, non tutta buona né cattiva. Essa, come il classico farmakon, può essere medicina come veleno, e la saggezza della tradizione umanistica insegna proprio l’importanza di riflettere in maniera non preordinata sul bilanciamento di rischi e opportunità, anziché leggerla solo in positivo (enhancement fine a se stesso e sempre ricominciato, come in Gasson), o solo in negativo (acritico rifiuto, come nell’ecologismo radicale, anch’esso non a caso ostile all’uomo).
Antonio Allegra, autore di questo articolo, è docente di Storia della filosofia presso l’Università per Stranieri di Perugia. Il suo ultimo libro è Visioni transumane (Orthotes, Napoli-Salerno, 2017)
Foto di Paul Hughes
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