Il Tfa poteva essere una buona occasione per la scuola. Poteva
Questa non è una geremiade ma la denuncia del sabotaggio di successo del tentativo di fare, con le lauree magistrali per la formazione degli insegnanti e il Tfa (Tirocinio Formativo Attivo) qualcosa di innovativo, che aprisse ai giovani le porte dell’insegnamento; un sabotaggio culminato nella tragicommedia dei test d’accesso, ennesima messa in scena dell’incompetenza.
Cosa si voleva creare con quel tentativo? Un meccanismo agile, ridotto a un anno, con più spazio per il tirocinio attivo in classe, più enfasi sulle discipline e un (modesto) ridimensionamento del didattichese, una struttura non autoreferenziale come le Ssis bensì frutto di un rapporto e di un coinvolgimento diretto di università e scuole, sottratta alle solite conventicole inamovibili, un meccanismo che garantisse un numero realistico di abilitazioni, per aprire una via ai giovani insegnanti, senza fabbricare precari.
Si poteva fare? Certo che si poteva. Ne abbiamo la prova tangibile. È la nuova laurea abilitante per la formazione primaria, l’unica che già funziona (le altre sono state bloccate). Come mai? Perché i pedagogisti – e lo dice chi li ha criticati in più occasioni – hanno mostrato sensibilità per l’interesse pubblico. Ricordo la riunione con la conferenza dei presidi di scienze della formazione: non tutti erano contenti del dimagrimento delle materie pedagogiche e del maggiore spazio dato alle discipline, ma prevalse il senso di responsabilità. Con qualche ragionevole mediazione la nuova struttura fu accettata e l’impegno a implementarla è stato perseguito con determinazione. Per merito – va detto – anche dell’allora presidente della conferenza, il professor Francesco Susi.
Altra musica sugli altri fronti scolastici. Dal gennaio 2009 iniziò un triennio simile alla cavalcata della diligenza di Ombre Rosse. Però quella, sia pure con danni, era giunta alla meta. Qui alla meta è giunta una gran beffa. Furono in tanti a lanciare frecce sulla diligenza: coloro che vedevano con orrore un meccanismo capace di togliere spazio alle immissioni ope legis (il solito asse tra dirigenza ministeriale e sindacati); le consorterie che temevano nuovi ingressi nel loro orticello riservato, associazioni e personaggi altolocati che (vergognosamente) ora si stracciano le vesti per il futuro rubato ai giovani e che fecero e scrissero di tutto per bloccare il nuovo regolamento e rubare ai giovani tre anni. E va detto che, in questa vicenda, il ministro non diede prova di decisionismo.
Si auspicava un rapporto agile e diretto tra università e scuole: è finita col mettere tutto in mano alle conferenze dei rettori e alle dirigenze scolastiche regionali. Si voleva che i Tfa fossero parte del carico didattico universitario, e invece (almeno in certe università) sono diventati costosissimi. I test d’accesso dovevano essere un filtro minimale per scremare gli incompetenti e sono diventati l’ennesima esibizione di incompetenza, con domande sbagliate o impossibili, che hanno prodotto un’ecatombe probabilmente voluta. Del resto, il ministero era in trincea da mesi per abbassare il numero dei posti disponibili.
Di fronte a questo disastro la tentazione è di dire: lasciamo alle scuole la libertà totale di assumere gli insegnanti e poi ciascuno risponderà delle sue scelte. Si trascura il dettaglio che non siamo negli Stati Uniti, che questo è un sistema prevalentemente statale e che esiste il valore legale del titolo di studio. Abolirlo? Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.
Certo, liberalizzare si può, ma in un sistema pubblico e prevalentemente statale occorrerebbe introdurre un efficace sistema di valutazione. E qui si apre il vaso di Pandora. Il peso di ideologie consolidate per decenni dall’egemonia culturale comunista e da una cultura cattolica di sinistra e l’assenza di un autentico pensiero liberale, trasformano automaticamente ogni processo di valutazione in un dirigismo di Stato da far invidia alla tradizione sovietica. Un buon processo di valutazione è tale se stimola una crescita culturale all’interno del settore coinvolto. Quindi non può che essere basato su procedimenti ispettivi all’interno del mondo degli insegnanti. Simili procedimenti possono essere strutturati in dettaglio: qui non è possibile, ma chi scrive l’ha fatto. Ricordo una riunione ministeriale in cui se ne parlò. La sentenza fu: va bene, purché i membri delle commissioni ispettive abbiano un patentino. La domanda ovvia è: chi darà i patentini? La risposta è altrettanto ovvia. Sarà il ministero, che si avvarrà delle “competenze” del solito nugolo di “esperti” e professori “amici”, sempre i soliti che vengono mobilitati per preparare qualsiasi test, con quali risultati si è visto. Né va dimenticato che la coriacea consistenza di questo nugolo è cementata dai compensi tutt’altro che trascurabili, una situazione incresciosa per non dire scandalosa.
In conclusione, se si chiede cosa servirebbe per smantellare questa miscela di dirigismo e di interessi precostituiti la risposta generale è: un ministro autorevole e deciso, capace di ricondurre il ministero entro i confini di un ruolo discreto di supporto. Basta con le continue direttive metodologiche; basta con gli interventi sul modo con cui si deve insegnare e addirittura sulla questione se dare o no i compiti a casa, basta con l’imposizione di tecniche didattiche; basta con le pressioni per promuovere tutti; basta con l’alluvione di certificazioni e moduli da imbrattare. Occorrerebbe un ministro capace di spezzare l’asse consolidato dirigenza-sindacati, di far prevalere l’interesse pubblico sugli interessi particolari, di sgretolare il prepotere delle conventicole. Occorrerebbe un ministero capace di rivolgersi al mondo dell’istruzione nel suo complesso, affinché emergano da esso le competenze adatte a passaggi cruciali (come è stato quello dei Tfa ponendo termine all’indecente favola per cui il parere di un esperto di “economia della scuola” o di uno statistico varrebbe più di quello di un insegnante). Sarebbe qualcosa di infinitamente più concreto dei blateramenti demagogici da cui siamo alluvionati e realizzabile senza nuove leggi. Purtroppo, allo stato, è soltanto un sogno.
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