«A quasi un anno dal devastante terremoto del 6 febbraio, che ha causato la morte di oltre 50 mila persone, la situazione in Turchia è ancora di piena emergenza». Dichiara così a Tempi il vicario apostolico dell’Anatolia, monsignor Paolo Bizzeti, che stasera terrà un incontro a Monza al Centro Culturale Talamoni dal titolo: “Testimonianze di martirio dei cristiani nel mondo. Il dramma dei profughi cristiano-siriani in Turchia”.
Monsignor Bizzeti, a che punto è la ricostruzione in Turchia?
Ci sono ancora tantissimi sfollati, circa 3 milioni, e tanti vivono in tende e container in modo precario. La settimana scorsa la situazione è peggiorata ulteriormente a causa di piogge torrenziali che hanno spazzato via anche delle tende. Ci sono stati morti e feriti ed è scattata una seconda emergenza.
I cattolici sono appena lo 0,05% degli 82 milioni di abitanti della Turchia. Quali conseguenze ha avuto il sisma sulla comunità?
Ad Antiochia praticamente tutti i parrocchiani sono stati colpiti dal sisma e anche la stessa parrocchia ha subito danni. La cappella invece è rimasta sostanzialmente a posto, tanto che abbiamo ricominciato a fare una celebrazione settimanale. Tanti cristiani sfollati hanno traslocato in altre città, dove hanno potuto trovare un appoggio, magari da parenti e amici.
E a Iskenderun?
Lì va un po’ meglio, il terremoto ha avuto effetti meno devastanti, ma la cattedrale è crollata ed è tutta da ricostruire. Stiamo ancora liberando il terreno dalle macerie e il processo sarà lungo. Sono fiero però di dire che i cristiani hanno dimostrato grande forza d’animo e sono veramente ammirevoli nel modo di affrontare questo momento così drammatico.
Teme che i cristiani che hanno lasciato Antiochia per trovare riparo in altre città possano non tornare?
La speranza è che tornino, perché altrimenti ci sarebbe un grande impoverimento per la vita ecclesiale. Però potrebbe accadere, soprattutto se la città non si riprende: ancora purtroppo non c’è un piano preciso per la ricostruzione, un piano urbanistico. Mancano lavoro e scuole, siamo in una situazione di grande precarietà. Le famiglie per tornare hanno bisogno di lavoro, scuola, servizi, per cui la sfida è grande. Mi conforta sapere che i fedeli sono molto attaccati alle loro origini cristiane: Antiochia, lo sappiamo, per i cristiani è la città più importante dopo Gerusalemme.
Le chiese andate distrutte potranno essere ricostruite?
Sicuramente, il processo però è complesso, soprattutto per quello che riguarda la Cattedrale di Iskenderun. Non essendo la Chiesa cattolica riconosciuta ufficialmente in Turchia, non avendo personalità giuridica, non fa parte di quelle fondazioni religiose che lo Stato sostiene. Ecco perché per noi sarà più dura, ci vorranno il concorso e l’aiuto di tutti.
Il lavoro di Caritas Anatolia, di cui lei è presidente, durante le fasi più dure dell’emergenza è stato apprezzato?
La Caritas ha dato una grande prova e siamo molto fieri del lavoro fatto e che stiamo ancora facendo. Tutti ce lo hanno riconosciuto, anche pubblicamente. Siamo tra le poche organizzazioni che sono state invitate a collaborare alla ricostruzione e alla programmazione per le zone terremotate, insieme alla Mezzaluna rossa e alla protezione civile. È la prima volta nella storia della Caritas che avviene qualcosa del genere.
Lei come ha vissuto personalmente il terremoto? Quali sono stati per lei i momenti di luce in mezzo a questo dramma?
Nelle difficoltà si è rivelata la qualità della vita dei nostri cristiani, che si sono adoperati per aiutare tutti. In una circostanza così drammatica sono anche caduti tanti muri, non solo tra le varie confessioni cristiane ma anche con i musulmani, con la gente comune. Abbiamo lavorato insieme per chi aveva più bisogno: di fronte alla tragedia del terremoto sono caduti tanti pregiudizi e barriere grazie alla gratuità dell’amore fraterno. Abbiamo visto aprirsi molte porte, abbiamo collaborato bene con le autorità pubbliche e siamo contenti.
Oggi a Monza parlerà dei profughi cristiani siriani in Turchia. Si legge spesso di situazioni difficili e discriminazione subite.
In Turchia ci sono ancora rifugiati dall’Iraq, dall’Iran, dall’Afghanistan e dalla Siria. Essendo i cristiani una piccola minoranza in Medio Oriente non hanno tante possibilità. In Turchia la Chiesa cattolica latina non ha riconoscimento giuridico e questo rende tutto più complesso per la vita di queste persone che noi cerchiamo di accogliere, sostenere, ma con dei limiti molto precisi. Io spero che tragedie come il terremoto facciano comprendere che è nell’interesse di tutti, anche del governo, che ci sia un’apertura e collaborazione con chi ha dato prova di essere buon cittadino.
La guerra in Israele ha avuto ripercussioni in Turchia?
No per fortuna, qui la gente è molto sensibile a quello che avviene al popolo palestinese, che non andrebbe mai identificato con i terroristi.
Che cosa pensa del conflitto?
Con la violenza non si ottiene nulla, dare sfogo alla propria rabbia con la violenza che abbiamo visto il 7 ottobre è sbagliato e controproducente. Purtroppo va anche detto che Israele ha raccolto ciò che ha seminato, tenendo quasi due milioni di persone in una specie di prigione a cielo aperto, con un tasso di disoccupazione altissimo e senza la possibilità di uscire. Io credo sia necessario rimuovere le cause di questa rabbia ma gli ultimi governi di Israele in questo senso non hanno fatto nulla, anzi, hanno solo esacerbato le tensioni. Non c’è alternativa a vivere insieme e anche il governo israeliano deve capirlo.
Che tipo di aiuto si aspetta la Chiesa turca da quella italiana e universale?
La Chiesa della Turchia ha bisogno innanzitutto di essere conosciuta perché c’è tanta ignoranza sui cristiani in Medio Oriente. Spesso si va avanti per slogan, invece c’è bisogno di ritrovare un rapporto tra Chiese che sono sorelle e hanno tanto da darsi e scambiarsi. La Chiesa di Turchia ha tanti bisogni, certo, ma ha anche tanto da dare alla Chiesa europea e italiana. Ecco perché spero sempre che si stringano relazioni più forti.