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Il san Paolo del Sahara

«Dio mi ha aperto gli occhi mentre lo stavo perseguitando». Storia di un giovane tuareg del Mali che si convertì per le parole della sua vittima: «Sappi che Gesù ti ama e io ti ho già perdonato».

Moussa Diabate
02/01/2019 - 3:00
Società
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Articolo tratto dal numero di Tempi di dicembre (attenzione, di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!

Mi chiamo Moussa Diabate, ma quando sono nato 40 anni fa in Mali i miei genitori mi hanno dato il nome di Mohamed, come si conviene secondo la tradizione islamica al primo figlio di un’importante tribù nomade Tuareg. E se non fosse per quel giovane cristiano che volevo uccidere per guadagnarmi il paradiso, e che mi ha fatto incontrare Gesù Cristo, oggi mi chiamerei ancora Mohamed.

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Fin da giovanissimo sono stato educato alla religione: dai tre ai sei anni ho imparato a memoria il Corano, a 11 anni ho cominciato a interpretarlo e a 15 a metterlo in pratica. Primo di 19 figli, sono stato educato in modo rigoroso, perché destinato a prendere il posto di mio nonno e mio padre come leader della tribù, che si spostava continuamente in carovana nel Sahara.
L’educazione che ho ricevuto mi ha insegnato che nell’islam ci sono due modi per essere certi della salvezza: il primo è fare la guerra santa, perché chi muore combattendo il jihad diventa un martire; il secondo è uccidere un infedele, un nemico di Dio, perché chi uccide un nemico di Dio diventa amico di Dio. Ecco perché volevo ardentemente uccidere un cristiano. Ma non ne conoscevo neanche uno.

A 16 anni studiavo nella capitale del Mali, a Bamako, e un giorno scoprii che un nostro compagno si era convertito al cattolicesimo. Si era ammalato di tubercolosi e la sua famiglia, che non poteva permettersi di curarlo, l’aveva abbandonato nel deserto. Due religiosi missionari, venuti a conoscere la sua storia, partirono per cercarlo, lo trovarono e si presero cura di lui, fino a guarirlo. In Mali la sanità e le medicine sono estremamente costose e una volta guarito il giovane, che aveva 22 anni, non poté fare a meno di chiedere ai religiosi quanto dovesse restituire. «Niente», gli risposero. Ma lui, che non poteva comprendere un gesto gratuito, insisté e così loro gli dissero: «Non vogliamo niente, perché tutto quello che facciamo, lo facciamo per amore di Cristo».

Il giovane si convertì e di conseguenza la sua famiglia lo rinnegò. Io non avevo mai conosciuto un convertito. Per l’islam ci sono solo due tipi di cristiani: coloro che nascono in una famiglia cristiana e verso i quali i musulmani devono comportarsi bene per convincerli ad abbracciare l’islam; e i musulmani che si convertono e che per questo devono morire. Non c’è perdono per gli apostati. Questo è quello che volevo fare io: uccidere quel ragazzo, perché aveva tradito la vera religione.

Mi procurai un’arma e andai a cercarlo. Quando lo trovai, lui mi disse senza lasciarmi il tempo di parlare: «So già perché sei qui. Voglio solo che tu sappia una cosa: se ora mi uccidi, io parteciperò alle sofferenze di Cristo e sarò un martire, andrò in paradiso e incontrerò Gesù e la Vergine Maria. Sappi che Gesù ti ama e che io ti perdono fin da subito per quello che stai per fare». La mia mano si bloccò. Non sono riuscito a ucciderlo. Non avevo mai sentito nessuno parlare così. Pensavo fosse pronto a rinnegare la sua fede, invece era pronto a morire e mi perdonava. Quel ragazzo è stato il primo a portarmi il messaggio del Vangelo e se oggi sono qui a scrivere queste righe è per merito suo.

Vuoi diventare un kamikaze?

Tornai a casa di mio zio, dove risiedevo nella capitale, e quella notte non chiusi occhio. Le parole e lo sguardo di quel giovane mi tormentavano. Tutto ciò in cui avevo sempre creduto cominciò a vacillare. Dentro di me, ero già diventato cattolico. In quel periodo avevo un ruolo cruciale in moschea: poiché ero una persona in vista, primo figlio del leader di un’importante tribù, mi occupavo dell’indottrinamento prima della preghiera e tanti giovani venivano da me per farsi benedire e chiedere protezione. Cominciai a disertare la moschea e a farmi schivo. Per questo un giorno mio zio venne a domandarmi che cosa stava succedendo. E poiché prima di compiere un attentato terroristico, è previsto che la persona si isoli da tutto, mio zio mi chiese se stavo per diventare un kamikaze. «Se hai bisogno di aiuto, posso offrirtelo», mi disse.

Confidando nella sua comprensione, gli risposi che non volevo diventare un kamikaze, ma che mi ero convertito al cristianesimo. Lui rimase in silenzio per un po’, poi mi disse che non potevo più dormire a casa sua e che avrei fatto meglio a tornare nel deserto per parlarne con mio padre e mio nonno. Per molti giorni dormii a scuola, sul mio banco, sfruttando la mensa dell’istituto per mangiare. Poi raccolsi il coraggio necessario e partii per il Nord, dove si trovava la mia tribù. Non sapevo che mio zio li aveva già informati della mia conversione. Appena arrivai, un altro zio, quello materno, uno dei leader dell’Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico), mi disse di fare con lui le abluzioni rituali e di andare a pregare in moschea. Gli risposi che non l’avrei fatto, perché mi ero convertito al cristianesimo. Lui allora mi prese, mi spogliò, mi frustò – conservo ancora i segni – e mi trascinò attraverso la carovana. Tutti mi videro nudo e umiliato. Attraverso quel gesto, tutti compresero che ero stato spogliato di tutto: non avevo più diritto alla successione, alle proprietà, alla leadership, non potevo neanche più sposarmi nella comunità. Non avevo più nulla.

«Vuoi abiurare o morire?»

Era l’inizio della settimana. Mio zio mi portò nel Sahara e mi legò nudo a un arbusto, dicendomi: «Hai tempo fino a venerdì per cambiare idea e tornare musulmano. Altrimenti, ti taglierò la gola». Voi non conoscete il deserto: di giorno fa molto caldo, ma di notte è come se una lama di ghiaccio ti penetrasse nel cuore. Ogni giorno venivano a picchiarmi, a mostrarmi il coltello e a domandarmi: «Vuoi abiurare o morire?». Io rispondevo: «Sono pronto a morire perché spero in Gesù Cristo e questa speranza nessuno me la può togliere».

Sarei morto se un cugino, di notte, non fosse venuto a salvarmi: «Sono stato alla riunione di famiglia», mi disse. «Hanno già pronunciato la fatwa: se non torni all’islam, dopo la preghiera delle 14 del venerdì, ti decapiteranno e sarà tuo zio a farlo davanti a tutti». Vide che non avrei cambiato idea e mi liberò. Io raccattai dei vestiti e fuggii nella capitale.

A Bamako non sapevo dove andare e tornai alla mia scuola per dormire. Lì mi venne a cercare un uomo e mi disse che ero stato convocato all’ambasciata svizzera. Non lo conoscevo, ebbi paura e rifiutai. Due giorni dopo, un’automobile si fermò davanti alla scuola e l’autista mi disse: «Vieni con noi all’ambasciata o tuo zio ti troverà e ti ucciderà». Come facevano quelle persone a conoscere la mia storia? Ancora oggi non lo so. Forse mio zio aveva sparso la voce che ero ricercato e l’ambasciata si è mossa. Io credo invece che sia stato lo Spirito Santo.

All’ambasciata mi fecero un nuovo passaporto e io cambiai nome: al posto di Mohamed, scelsi Moussa, Mosé, che da neonato fu abbandonato e salvato dalle acque, e poi Diabate, che in maliano significa “messaggero di pace”. Grazie all’ambasciata e ai finanziamenti anonimi dei benefattori di Aiuto alla Chiesa che soffre mi sono trasferito in Svizzera, dove a 19 anni sono stato battezzato nella cattedrale di Ginevra. La mia volontà era però quella di fare l’insegnante in Mali e così, dopo aver studiato, tornai nel mio paese, per quanto lontano da dove viveva la mia famiglia.

«Tu non sei più nostro figlio»

Provavo molta nostalgia dei miei genitori e come avevo imparato dal catechismo e dalla preghiera del Padre Nostro, desideravo perdonarli. Così approfittai di un’usanza della mia tribù per entrare in contatto con loro. Secondo tradizione, il primo stipendio del primo lavoro va donato alla mamma, per ringraziarla dell’educazione ricevuta. Misi i soldi in una busta e aggiunsi una lettera, dove spiegavo che mi ero convertito al cristianesimo, ma che loro restavano la mia famiglia e io li amavo e li perdonavo per tutto quello che mi avevano fatto. Ricevetti dopo poco tempo la risposta. In una busta trovai i soldi che avevo inviato: li avevano rifiutati. Il messaggio era conciso e lapidario: «Non sei più nostro figlio, il nostro Mohamed è morto».

Sono rimasto in Mali fino al 2012, quando è cominciata la guerra e i terroristi islamici hanno conquistato il paese. Allora sono scappato: prima in Senegal, poi sono stato accolto dal Brasile, dove vivo tuttora. Ho fondato una ong, Il buon samaritano, e lavoro nell’accoglienza dei rifugiati: aiutiamo i cristiani perseguitati dal punto di vista legale e medico, ma anche i musulmani. Lavoro anche come professore universitario e mi occupo di diritti umani, in particolare della promozione della libertà religiosa nei paesi islamici.

«Quanti soldi ti hanno dato?»

Tutte le mattine e tutte le sere prego per mia madre, mio padre e la mia famiglia. Non li vedo da oltre vent’anni. Ho dovuto soffrire molto a causa della fede, e anche perdonare è stato difficile, ma il perdono e la croce sono il cuore del cristianesimo. Sarebbe strano piuttosto non essere perseguitati, perché Gesù ci ha detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».

Io ho due croci da portare: la prima è la miastenia grave, che mi hanno diagnosticato anni fa. È una malattia cronica che altera la funzione dei muscoli e dei nervi, e non c’è cura. La seconda è il rifiuto dei miei genitori. Ricordo che quando hanno scoperto che mi ero convertito, la prima domanda che mi hanno fatto è: «Quanti soldi ti hanno dato?». In Mali si pensa infatti che il Vaticano paghi tutti i cristiani del mondo per convincerli a credere in Gesù. I miei genitori hanno commesso blasfemia contro la Chiesa e contro la Vergine Maria, perché con il Corano ripetono che Dio non ha madre e non ha figlio. Io però prego sempre perché possano scoprire l’amore incondizionato di Dio attraverso me e altri testimoni. E spero che possano essere illuminati dalla luce di Cristo. La stessa che mi ha aperto gli occhi, proprio mentre lo stavo perseguitando.

Testo raccolto da Leone Grotti

Tags: al qaedaIsismalituareg
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