Il Libano è diventato una trappola. «Nessun posto è sicuro»
La gente che fugge dal Sud si muove su auto, autobus, carretti tirati da asini sfiancati. Le donne chiuse nel velo sono silenziose, gli uomini imprecano contro la lunga coda di mezzi che blocca l’autostrada che costeggia il mare, i ragazzini sorridono e fanno il segno della vittoria con le dita, qualcuno mostra finte armi di plastica.
«Non sappiamo dove andare e come», dice a Tempi Nabil. Vicino a Tiro ha dei campi, coltiva banane, datteri, olivi. Ha quattro figli. Un’attività non male, almeno fino a quando i missili hanno cominciato a cadere vicino alle abitazioni. Non vuole parlare di Hezbollah e delle basi vicino ai villaggi che sono l’obiettivo di Israele: «Ora è peggio del 2006. La guerra di quella estate durò un mese, gli israeliani entrarono con i carri armati. Sparavano contro le abitazioni. Hezbollah rispondeva. Ma quando arrivò la forza dell’Onu e i caschi blu si stabilirono lungo la Blu Line gli israeliani se ne andarono. E per un po’ i miliziani non fecero ulteriori azioni. I soldati internazionali ci aiutarono. Gli italiani sono gentili ed efficienti. Parlano con la gente, con i capi villaggio, hanno ricostruito le infrastrutture in pochi mesi. Abbiamo potuto fare la raccolta delle olive perché i vostri artificieri hanno sminato i campi e gli alberi dove erano rimaste appese le cluster bomb, le bombe a grappolo. Io ero un ragazzino, ho ancora le cicatrici delle schegge di una bomba che mi ha colpito alle gambe, alle natiche, alla schiena. Mi ha curato una dottoressa cubana che lavorava all’ospedale di Tiro, ci siamo rimessi in piedi, ma ora da un anno siamo in guerra e le cose stanno peggiorando».
Chi può, scappa
Migliaia di persone sono in fuga dal sud, oltre centomila hanno trovato alloggio negli edifici pubblici, nelle scuole, ma altri stanno arrivando. Le auto, cariche di materassi, si accampano dove trovano, persino nei parchi della periferia, dentro tende improvvisate.
Altre migliaia di persone cercano di andarsene dal Libano dove nessun posto ormai è considerato sicuro: l’aviazione israeliana colpisce le postazione di Hezbollah al sud, a Beirut, nel quartiere di Haret Hreik, a Baalbek, nella valle della Bekaa, bombe cadono sulla catena montuosa dello Chouf, su un villaggio cristiano a Nord di Beirut: Maaysra. L’incubo della popolazione è ora l’attacco di terra da parte di Israele, come nel 2006. Non solo, i libanesi temono la esplosione di nuove ordigni nascosti, dopo l’esplosione degli oltre cinquemila beeper, i cercapersone in dotazione ai miliziani di Hezbollah che hanno ucciso decine di persone, almeno 50, e ferito gravemente altre 4.500. Cifre provvisorie. Gli ordigni sono esplosi ovunque, colpendo anche civili, anche minori che erano vicino ai miliziani. Negli ospedali, dicono le autorità sanitarie libanesi, i medici lavorano senza sosta.
All’ospedale San Giovanni Battista dell’Ordine di Malta una dottoressa medica una ragazza: «La bomba camuffata da walkie-talkie era nella tasca di suo fratello, lui è ricoverato, grave. Lei era vicina, è stata ferita a un braccio. Guarirà, ma ha quindici anni e non dorme più. Piange, è terrorizzata. Sta crescendo un’altra, l’ennesima, generazione che non conosce la pace, la sicurezza. Chi può, scappa dal Libano».
«Nuotavo tra i cadaveri»
Impossibile fare un bilancio preciso delle vittime: si parla di oltre mille persone negli ultimi quattro giorni. Sarebbero già più dei morti nelle guerra del 2006. Sono oltre centomila gli sfollati dal sud, dal confine dove si aspetta l’attacco via terra, ma altre migliaia premono alla frontiera cercando scampo in Siria. Molti hanno passato la notte sul confine senza riparo: tra loro donne e bambini. Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, sta cercando di assisterli distribuendo acqua, cibo e coperte. E ci sono altri due milioni di profughi in Libano, senza speranza e senza documenti. Sono oltre un terzo della popolazione totale: palestinesi che vivono nei campi dell’Unrwa, iraniani, iracheni, curdi, tutti fuggiti dalle tante guerre degli ultimi vent’anni in Medio Oriente che speravano di trovare rifugio in Libano. Ora li minaccia una nuova guerra dalla quale non possono scappare nemmeno tornando nei paesi di origine. In centinaia negli anni scorsi hanno provato la via del mare, sognando l’Europa, l’Italia.
Jihad è uno di loro, è uno dei pochi sopravvissuti ad un naufragio dove sono morti 150 tra uomini, donne e bambini, su un barcone affondato vicino alla costa di Tripoli del Libano, la città più a Nord. Il suo incubo non ha fine. Racconta a Tempi: «Avevo provato altre volte a lasciare il Libano, siamo palestinesi della diaspora e qui non abbiamo diritti. Non posso avere un visto. Ho pagato settemila dollari. Eravamo in troppi per quella barca. Il capitano non voleva partire. Gli scafisti gli hanno detto: se non parti, uccidiamo i tuoi figli. La barca si è rovesciata. Nuotavo tra i cadaveri. In trenta ci siamo aggrappati al relitto, avevamo le allucinazioni: chi diceva “ora viene mia mamma, andiamo alla moschea”. Faceva freddo, un ragazzo mi è morto tra le braccia, aveva 17 anni, si chiamava Rawad. Quando è arrivata la luce del giorno ho visto la terra ferma, ho nuotato per 13 ore. Mi sono salvato, io solo. Ogni notte ho gli incubi. E ho sempre davanti, anche ora li vedo, i miei amici morti e quei bambini. Ora dico: non prendete il mare, scegliete di vivere. Meglio la fame e la povertà. Ma non c’è più speranza se verrà una nuova guerra».
Le forze cristiane
Hezbollah posta sui social filmati in cui annuncia vendetta e minaccia l’uso di nuove armi preparandosi ad una guerra casa per casa sul terreno, tra i tunnel scavati in vent’anni sotto le abitazioni civili, le scuole, le moschee.
Il premier libanese Najīb Mikati invoca l’intervento delle Nazioni Unite che hanno sul terreno 12 mila caschi blu, tra cui mille italiani. «Il paese è in ginocchio – dice -, non possiamo perdere un’altra generazione in una nuova guerra, il Libano è oltre l’orlo del baratro».
Il Patriarca maronita, Bechara Rai, che ha condannato l’uso degli ordigni camuffati da ricetrasmittenti, ora lancia un appello alle Nazioni Unite: «Davanti al disastro nazionale l’Onu intervenga efficacemente per costringere le parti a fermare la guerra e iniziare i negoziati». E chiama all’unità l’intera famiglia libanese ringraziando «tutti coloro che aprono le loro case e le loro scuole agli sfollati e si danno da fare negli ospedali per soccorrere i feriti». Rai chiede al Parlamento di eleggere finalmente un presidente e porre fine alla crisi politica e istituzionale che si trascina da anni. «Preghiamo Dio affinché ispiri a tutti la strada per raggiungere una pace giusta e inclusiva».
Ma anche le forze cristiane non trovano un’intesa. Il portavoce del partito cristiano più forte, le Forze Libanesi, risponde a Tempi che «non è ancora il momento di parlare. Nessuna dichiarazione. Nessun comunicato ufficiale». Si teme che alla guerra sul fronte sud si sommi una nuova guerra civile, con i cristiani divisi.
Stati Uniti e Francia mediano per un cessate il fuoco di tre settimane. Ma la trattative è molto difficile. L’aeroporto funziona, ma sono stati annullati decine di voli. E i costi per un posto aereo in partenza sono triplicati. Molti si sentono in trappola. Chiusi in una guerra che non hanno voluto.
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